Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
L’etimologia colloca la parola venerazione nel campo semantico di quella che per i Greci era δουλ(ε)ία (doulía) e per i Latini veneratio, talvolta, servitus. Intese entrambe come dipendenza volontaria, se non proprio amorosa, da qualcuno o da qualcosa. Atteggiamento interiore, accompagnato da gesti concreti, ma diverso da quello dovuto alla divinità. A questa si deve adorazione. Come anche la religione cattolica insegna, ponendo su piani totalmente distinti la venerazione per la Madonna e i Santi e l’adorazione nei confronti della Trinità Santa.
È vero che la venerazione comporta il riconoscimento del carattere di sacralità, nel senso originario della parola, a chi o a cosa essa è rivolta con devozione. Ciò non autorizza tuttavia a confinare la forza e la ricchezza di questo termine esclusivamente all’ambito dell’esperienza religiosa.
Degna di venerazione è, per esempio, la vita. Venerarla vuol dire ritenerla degna di essere protetta in ogni sua manifestazione, spendendosi perché venga allontanato da essa tutto ciò che le impedisce di dischiudersi. È quanto dà senso a qualsiasi intervento teso a far ritrovare l’orientamento a chi l’ha smarrito e a far riscoprire il gusto di vivere a chi l’ha perso. È segno di venerazione la vicinanza a chi si trascina perché ciò che entusiasmava e suscitava amore, all’improvviso appare indifferente. Fino a sopportarlo e tirarlo avanti faticosamente; vivendo l’esistenza senza avvertirla; a brevi respiri e camminando come sonnambuli.
La grandezza della venerazione, quando non diventa acritica soggezione al sacro o presunto tale, è essenzialmente fiducia nella vita e rispetto nei suoi confronti. È dichiarare, con fatti concreti e scelte talvolta faticose, l’insostituibilità di chi mi sta di fronte, con la sua storia, con le sue attese, con la sua fatica di vivere. Venerazione, in questo caso, è la spinta a risvegliare la sua voglia di vivere, senza trasferire il presente nell’impossibile e nell’utopistico. È la virtù di chi si spende per creare varchi nelle situazioni senza via d’uscita, mostrando l’attrattiva di un futuro possibile.
Ma tutto questo vale anche nei nostri confronti. Anche la nostra esistenza è degna di venerazione. Per venerare gli altri, bisogna venerare sé stessi. Semmai facendo nostre le tappe che contrassegnano, come scrive M. Buber, «la grammatica del cammino dell’uomo»: cominciare da sé stessi, prendendosi come punto di partenza, non come meta; conoscere i propri limiti, senza lasciarsi paralizzare; conoscersi, senza preoccuparsi di sé. Allontanando cioè da noi la cattiva abitudine di chi pensa che ci si conosce bene solo se alla conoscenza di sé seguono afflizione e scoraggiamento.