Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
A caratterizzare in maniera significativa il campo semantico del lemma “utile/inutile” è una sorta di pragmatismo, che sembra caratterizzare gran parte degli ambiti della vita contemporanea. Si va facendo sempre più strada infatti l’equazione, tra le altre, in base alla quale tu vali nella misura in cui quello che fai procura vantaggi e benefici ben quantificabili. Insomma, una diffusa sindrome della utilità che tende a rigettare la forza rigeneratrice dell’inutile. Di tutto quello cioè che sfugge alla logica produttivistica e del profitto immediato, e che rifiuta di essere inquadrato negli schemi dell’utilitarismo, fatto solo di efficienza a tutti i costi, di efficacia immediata e di guadagno.
La linea di confine tra l’utile e l’inutile è questione di sguardi! Sguardi sulle cose, sulle persone e sul tempo di cui disponiamo. Siamo noi a definire ciò che è utile, inutile o addirittura dannoso. Col nostro sguardo. Frutto della disposizione interiore con la quale viviamo, non solo ciò che di volta in volta facciamo; ma frutto anche della disposizione con la quale diamo vita ai nostri più articolati progetti. Quelli liberi dalla bramosia del possesso verranno classificati dai più come progetti inutili. Mentre sono proprio questi i progetti che permettono di allontanare la tentazione di creare scarto ed esclusione; tossico approdo di sguardi che promuovono solo l’utile che procura tornaconto.
L’utile che sfugge alla morsa del vantaggio a tutti i costi e che spinge oltre la contingenza, senza farcela negare, esige uno sguardo che strappa la vita e i giudizi all’inferno del competere per umiliare il concorrente e del controllare per ridurre gli spazi di libertà altrui. È lo sguardo che permette all’altro di percepire il mio desiderio di prendermi cura di lui senza entrarne in possesso e di corrispondere al suo bisogno senza pretendere.
Ciò diventa possibile solo se abbiamo la consapevolezza che noi non possiamo coincidere in maniera totalizzante con il nostro interesse. E che abbiamo bisogno di investire una quota considerevole di vita in ciò che con l’interesse non c’entra niente. Investire in ciò che è utile non perché, o non solo perché, reca vantaggio, ma perché viene (e si sente) valorizzato per quello che è. Imparando a ridefinire e a scegliere anche gli atteggiamenti che rendono utile il tempo che viviamo. Riscattandolo dalla vacuità. Senza rassegnarsi passivamente a ciò che in esso accade, senza subirne l’inesorabile processo, come se fosse già tutto prestabilito, indipendentemente dalla nostra libertà e dalla nostra più importante chiamata a sentirci invitati ad andare sempre più in là di dove ci troviamo.