Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Prima che una istituzione e una struttura didattica e scientifica di ordine superiore, nella sua etimologia, la parola università indicava un insieme, un complesso. Non solo di persone, semmai accomunate dall’esercizio della stessa professione, tanto da essere considerate vere e proprie corporazioni.
Università erano chiamati gli attuali municipi, in quanto insieme di uffici e servizi necessari per la vita della comunità. Università venivano chiamati i comuni dell’Italia meridionale, sorti sotto la dominazione longobarda e successivamente infeudati con le conquiste dei Normanni. Fu Carlo I d’Angiò a mutare in universitas (da universi cives, unione di tutti i cittadini) il nome di quelli che sotto Federico II erano chiamati “comuni”.
Pur non mancando istituzioni paragonabili alle moderne università (ad esempio, l’Accademia Platonica), solo il Medioevo conosce la universitas studiorum, strutturata anche giuridicamente, con l’obiettivo di promuovere una cultura superiore.
Così intese, le prime università nascono intorno alle cattedrali e ai monasteri.
Perché l’università possa oggi assolvere alla sua mission, Juan Carlos De Martin le chiede «uno sforzo di sintesi che permetta di orientarsi in un mondo non solo sempre più complesso, ma anche sempre più immerso in una transizione di cui nessuno conosce né i tempi né gli esiti. L’università può accendere luci che permettano di capire meglio quello che sta capitando, con l’obiettivo primario di salvaguardare la pace» (Università futura. Tra democrazia e bit).
Un modo, questo, per fare dell’università una “comunità alternativa”. Capace di spezzare quell’individualismo che da tempo inquina anche i processi formativi. Impegnandosi a formare persone, e non solo preoccupata di preparare all’occupazione lavorativa. L’appiattimento su aspetti economico-finanziari conosce un solo esito: trasforma le università da soggetti di una comunità generativa ad attori di un mercato in competizione tra loro per accaparrarsi studenti, attirare più fondi statali, scalare le classifiche internazionali.
La generatività è assicurata all’università – ricorda A. Prencipe nel suo volume Università generativa – da un ossimoro solo apparente: «Una università generativa non è solo un luogo in cui s’impara e s’impara a imparare, ma anche e soprattutto un luogo dove s’impara a disimparare. […] Disimparare costituisce un’abilità fondamentale anche per governare il cambiamento». E lo è solo nella misura in cui il disimparare è frutto di un processo d’indagine e di esperienza del dubbio.
Un disimparare talvolta “doloroso e frustrante”, sì, ma che assicura generatività.