Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Si narra che la professione di traduttore esistesse già presso gli antichi Egizi e nelle civiltà mesopotamiche, a partire dal 3000 a.C. Solo nel III secolo a.C., però, è documentata l’iniziativa di Tolomeo II Filadelfo. Il re d’Egitto ordinò la traduzione delle Sacre Scritture dall’ebraico al greco a 72 saggi. Si ebbe così la versione alessandrina o dei Settanta della Bibbia. Seguì, poi, la Vetus Latina (II sec. d.C.).
Nel 383 papa Damaso I assegnò a Sofronio Eusebio (san) Girolamo il compito di redigere una nuova versione latina della Bibbia (Vulgata). Questi, prima di cominciare la propria fatica, si trasferì a Betlemme. Mi piace vedere la scelta di san Girolamo come un primo passo verso il superamento del concetto di traduzione, intesa come mera trasposizione di parole da una lingua all’altra. Girolamo sente infatti l’esigenza di acquisire gli strumenti necessari, non solo filologici, per mantenere intatto il significato del messaggio di partenza e riformularlo in quello di arrivo. In un giusto equilibrio tra fedeltà al testo e adattamento al contesto. Va a Betlemme per respirare l’aria dei luoghi nei quali buona parte degli eventi raccontati erano avvenuti.
Tradurre, in questo caso, è davvero realizzare ciò che la parola vuol dire nella sua etimologia. Derivando dall’unione di trans e ducere, significa, letteralmente, «portare oltre, condurre attraverso, far passare da un luogo a un altro». Talvolta, il verbo transducere allude all’azione del trasportare ma anche a quella dell’attraversare.
Nel nostro caso tradurre è, comunque, un oltrepassare i confini linguistici e il background di una particolare cultura, senza perdita di senso o alterazione delle strutture semantiche. Difficile, su questo, trovare uniformità di vedute. Le ali estreme sono rappresentate, a metà del Seicento, dai fautori della libera traduzione (Belles infidèles), cui si contrapponevano i sostenitori del concetto di traduzione esatta, fedele e scrupolosa.
Cicerone, col suo De optimo genere oratorum, piuttosto che sulla traduzione letterale delle parole, punta sull’efficacia espressiva. Un passo avanti, rispetto a Cicerone, lo fa Paul Ricoeur, per il quale il traduttore è chiamato a essere fedele al testo originale, collocandolo nel tempo e nello spazio (cf. Il paradigma della traduzione, 1998). Più in là si spinge Italo Calvino. Tradurre, per lui, vuol dire rendere in maniera autentica il senso e lo spirito di un testo. Mettendoci una giusta dose di creatività, fin quasi a reinventarsi il testo. E ciò vale soprattutto per un’opera letteraria. D’altronde, secondo Umberto Eco, tradurre è dire “quasi” la stessa cosa.