Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole
C’è buio, ma sorgerà la luce
In latino, il termine tenebra è uno dei cosiddetti nomina pluralia tantum. Parole che vengono declinate solo al plurale (tenebrae-arum). Non è un caso che, nell’uso comune, il ricorso al plurale (tenebre) sia più frequente del ricorso al singolare.
Un primo significato della parola tenebra rimanda al valore fisico della tenebra, descritto così da Dante nel Convivio (III V 21): “… questa palla dove noi siamo, in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre”. La tenebra quindi come assenza di luce. Nel linguaggio comune però, oltre che nello stesso Dante, sono molti i valori simbolici connessi alla parola tenebra e al sinonimo “notte”. Talvolta li si trova accomunati con evidente intento rafforzativo. Come quando si parla di “tenebre notturne” o di “notte di tenebre”.
Tra le coppie di concetti – spesso vere e proprie opposizioni binarie – che caratterizzano la nostra esperienza umana, un posto di rilievo tocca all’opposizione luce-tenebre; all’opposizione cioè tra la leggerezza, la voglia di vivere e l’armonia, da una parte; e l’oscurità, il caos, la morte, lo smarrimento e l’ignoranza, dall’altra. Anche se quasi mai presenti in maniera così definita e contrapposta.
Dalla mitologia all’ambito filosofico, letterario, religioso e artistico, la parola tenebra ha goduto di una grande attenzione, dischiudendo orizzonti semantici inattesi. Come quelli che si muovono intorno alla parola greca skotía (tenebra), che va decisamente oltre l’assenza fisica della luce, investendo l’intera realtà umana, soprattutto nella sua dimensione etico-religiosa.
Il frequente accostamento delle tenebre alla notte ha contribuito a riversare sulla parola tenebra gran parte dei significati che inizialmente appartenevano solo alla notte. Compresi quelli positivi, nei quali la notte e, quindi, le tenebre permettono alla persona un accesso interiore a ciò che sta in profondità. Ne erano convinti Dionigi l’Aeropagita, Giovanni Scoto Eriugena e Filone Ebreo, che hanno sviluppato addirittura una teologia (apofatica) delle tenebre mistiche. Con accenti che trovano eco nella poesia di Hölderlin, dove le tenebre della notte rimandano all’oscurità del grembo nel quale germoglia la vita.
Non è possibile però che le tenebre aprano alla vita e lascino intravedere una luce all’orizzonte, se restano solo il luogo della paura, dell’egoismo e dell’autosufficienza. Mentre “La notte del mondo distende le sue tenebre” (M. Heidegger), abbiamo tutti bisogno di alzare lo sguardo e continuare a gridare il nostro bisogno di luce, come il cieco del Vangelo, Bartimeo (Mc 10, 46-52). Certi che le tenebre si squarceranno, facendo posto a cuori leggeri e riconciliati. Segnati dalla fatica e dall’incertezza, ma non prostrati. Animati dalla stessa certezza che ha fatto dire a Victor Hugo: “Ogni uomo nella sua notte se ne va verso la luce”. La stessa certezza capace di consegnare a tutti uno sguardo nuovo sulla realtà e sulla vita, che hanno bisogno di parole sensate e di relazioni intense e leali per crescere.