Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Nella sua unica grande opera narrativa, Fernando Pessoa ha inventato un personaggio, Bernardo Soares. A lui ha delegato il compito di scrivere un diario: Il libro dell’inquietudine.
Qui il massimo poeta e scrittore portoghese del XX secolo, morto all’età di 47 anni, ci consegna un quadro interiore nel quale può trovarsi a suo agio chiunque lo accosti con sguardo libero da preconcetti e col desiderio di scoprire nuovi orizzonti. Anche nel pieno delle difficoltà, qualsiasi natura esse abbiano. Quelle che, in mancanza di un’altra parola, indichiamo col termine “stanchezza”. Di natura psicologica, fisica, lavorativa, spirituale, sociale. Tutte, al di là dell’aspetto organico, gridano che dentro c’è qualcosa che si è spezzato. E che ci restituiscono, tristemente e perfettamente, la condizione di fatica e di disagio nella quale ci troviamo, impedendoci di incontrare ancora, gustandole, le memorie più intime; di sentirci inseriti in un tempo capace ancora di vederci protagonisti; di tornare a vedere i colori che attraversano la nostra vita e le emozioni che la rendono desiderabile.
Tra le tante forme che può avere la stanchezza, Pessoa ferma la sua attenzione «sulla stanchezza dell’intelligenza astratta [che] è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima».
Quando prende possesso di noi e della nostra vita, questa stanchezza ci rende impotenti, provoca strappi e genera lacerazioni. Allora la nostra esistenza assomiglia a uno stagno nel quale prolifica di tutto, eccetto che forme di vita.
Pur non condividendo l’eccessiva e talvolta sbrigativa critica rivolta ad altri autori che hanno messo a tema la stanchezza, una via di uscita è stata proposta nel saggio La società della stanchezza dal filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Soprattutto quando parla di quella che papa Francesco ha chiamato “la stanchezza di sé stessi”. La stanchezza che subentra in una vita condotta in maniera prevalentemente autoreferenziale. Quella che assale quando ci si stanca di lottare (cfr. Evangelii gaudium, 277), quando si è delusi di sé stessi e ci si chiude a qualsiasi forma di consapevolezza dei propri limiti e alla possibilità di manifestare un bisogno e di chiedere aiuto.
La stanchezza, da quella fisica a quella dell’intelligenza, non è una malattia irreversibile. Lo diventa quando ci si chiude in sé stessi. Dando ragione a S. Giovanni della Croce, per il quale «l’anima che cammina nell’amore non annoia gli altri né stanca sé stessa».