Speranza

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Il fascino della speranza, che aveva contribuito a diffondere scritti come quelli, tra gli altri, di J. Moltmann (Teologia della speranza) ed E. Bloch (Il principio speranza), sembra aver lasciato il posto ad atteggiamenti piuttosto rinunciatari. Una diffusa tendenza guarda alla speranza come a un’attesa passiva o a un’ingannevole illusione.
Le sconfitte personali e le delusioni che seminano intorno a sé alcuni responsabili della cosa pubblica rendono particolarmente faticoso coltivare speranze capaci di proiettarci verso orizzonti ampi e pieni di senso. Ci si limita, tutt’al più, a coltivare attese di corto respiro e piccole speranze quotidiane. Quelle che Nietzsche disprezza perché all’origine della «morale d’armento».
Al posto delle antiche speranze della tradizione platonico-cristiana, il filosofo tedesco propone la «suprema speranza» (Così parlò Zarathustra). La immagina come «l’arcobaleno gettato al di sopra del ruscello precipitoso e repentino della vita, inghiottito centinaia di volte dalla spuma e sempre di nuovo ricomponentesi: continuamente lo supera con delicata bella temerarietà, proprio là dove rumoreggia più selvaggiamente e pericolosamente» (Umano troppo umano).
La suggestiva immagine della speranza/arcobaleno mira alla creazione di una «nuova bella specie di uomo», che spazzi via ogni valore preesistente; a cominciare dalla compassione e dalla solidarietà per il gregge dei “mal riusciti” e dei “superflui”. Nulla quindi che faccia assomigliare la «suprema speranza» di Nietzsche all’atteggiamento interiore, capace di evitare il naufragio nel «ruscello precipitoso e repentino della vita». Inghiottiti nel vortice di un pessimismo paralizzante.
Quello che invece è la speranza nella tradizione cristiana. Almeno in quella che è rimasta fedele al dato biblico. Qui, coltivare la speranza vuol dire sentirsi impegnati nella salvezza e nella liberazione integrale già ora, in questo mondo. Con l’intenzione di non cadere nella paralizzante monotonia del “sempre uguale” e quindi nella perdita di tensione verso il nuovo.
Può farlo però, credente o no, solo chi è disposto a dotarsi di un paesaggio futuro, di una visione che stimoli; e di quella che san Paolo (Romani 5,3) chiama ὑπομονή (upomoné): paziente resistenza e coraggio. Come paradossalmente sembra suggerire il dipinto di C.D. Friedrich Il mare di ghiaccio, conosciuto anche come Il naufragio della speranza.
Davvero felice il modo in cui, a proposito di tradizione cristiana, Kierkegaard considera la speranza: «Passione per quello che è possibile». E quindi tensione che sostiene il desiderio di mettersi continuamente in gioco per modificare lo stato di cose esistenti.

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