1 Cor 12, 12-14. 27 -31a; Lc 11-17
É sempre più frequente sentir parlare, nei nostri ambienti, di “Chiesa profetica”, “annunzio profetico”, “presenza profetica”, “gesti profetici” ecc.
La liturgia della Parola di oggi – soprattutto attraverso i gesti compiuti da Gesù e descritti nel Vangelo – ci aiuta a riempire di senso concreto quell’attributo; ci aiuta a capire cosa è davvero “profetico” e chi è il “profeta”. Ricordando che, con il Battesimo, ciascuno di noi è stato costituito “sacerdote, re e profeta”, mettiamoci in ascolto di una pagina del Vangelo che ci aiuta anche a capire in che modo noi possiamo vivere in maniera profetica; in che modo cioè la nostra può essere una vita e una testimonianza “profetica”.
Com’è nello stile della Sacra Scrittura, sono i gesti oltre e più che le parole a far riconoscere il “profeta”. Esemplare è, a questo proposito, è l’episodio alla luce del quale l’evangelista Luca costruisce la sua narrazione; mi riferisco al racconto contenuto nel primo libro dei Re, nel capitolo 17, dove il grandissimo profeta Elia, aveva risuscitato il figlio della vedova di Sarepta.
Elia è uno che non gira alla larga dalla sofferenza: è entrato nella casa della vedova resa muta dal dolore per quanto di più paralizzante possa capitare a una mamma: la morte del proprio bambino. La presenza di Elia in quella casa comincia con un chiaro e forte invito: “Dammi tuo figlio”. Elia cioè non resta estraneo a ciò che è all’origine del dolore di quella donna, anzi prende e porta con sé il bambino morto, compie su di lui gesti intensi di vita e invoca su di lui la presenza del Dio della vita.
Ripeto, Luca costruisce la sua narrazione tenendo sullo sfondo questo episodio, ma arricchendolo e contestualizzandolo in maniera originale. Una originalità espressa dalle righe che precedono il brano ascoltato poco fa. « In seguito …»; così inizia il brano odierno. . L’evangelista cioè fa seguire questo episodio a un altro importante: Gesù è stato chiamato in soccorso da parte di un centurione. Nella logica simbolica di Luca, il centurione raffigura il mondo pagano che chiede l’intervento di Gesù. E’ bastata la sola parola di Gesù per andare incontro alle aspettative del centurione, e Gesù, ammirato, fa un grande elogio: «In Israele non ho trovato una fede così grande».
« In seguito…» – ecco l’inizio del nostro brano – l’evangelista ci presenta la situazione di Israele, questo popolo ormai senza fede. Il contesto è una città chiamata Nain. Nain è un termine che probabilmente significa “grazioso, piacevole”, ed è nei pressi di Nazareth. Facevano la strada con lui i discepoli e una grande folla.
L’evangelista ama spesso contrapporre due cortei, uno di vita e uno di morte. Anche qui ci sono due cortei che si incontrano. Uno, quello di Gesù con i suoi discepoli – portatore di vita – mentre dalla città esce un corteo portatore di morte. «Quando fu vicino alla porta della città – scrive Luca – ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova».
É una tragedia! La madre è vedova, quindi non ha marito, non ha altri figli, nessuno che possa assicurarle il sostentamento ed è la morte anche per lei. E molta gente della città era con lei. Quindi Gesù, portatore di vita, va verso questa città, ma da questa esce la morte. Tutta la gente non sa ripetere altro che riti di morte propri di una religione di morte.
«Vedendola, il Signore …». Per la prima volta l’evangelista adopera questa espressione, indicando già il Cristo risuscitato, « … ne ebbe compassione».
Nel mondo ebraico si distingue tra “avere compassione” e “usare misericordia”. “Usare misericordia” è un atteggiamento degli uomini, ma “avere compassione” è un’azione solo divina. É un’azione con la quale si comunica e si restituisce vita a chi vita non ce l’ha.
Nel Vangelo di Luca la troviamo tre volte, questa è la prima, poi nella parabola del Samaritano dove Gesù l’attribuisce addirittura a un uomo, eretico per giunta, perché si comporta come Dio e quindi comunica vita, e infine nella parabola del figliol prodigo quando il padre, vedendo il figlio, che considerava morto, ebbe compassione.
Quindi questo “avere compassione” è un’azione divina con la quale si comunica, si restituisce vita a chi non ce l’ha. E le disse: «Non piangere! E accostatosi, toccò la bara».
Nell’episodio precedente col centurione era bastata la parola di Gesù. Perché qui Gesù tocca la bara? Perché era proibito. La legge proibiva di toccare la bara – una semplice lettiga e il defunto era coperto da un lenzuolo – Era proibito perché chi toccava un cadavere o una bara contraeva l’impurità.
Innanzitutto Gesù mostra la falsità di questa legge, la trasgredisce e tocca la bara. Causa della morte di questo popolo infatti è l’osservanza di una legge fine a se stessa, una legge che non serviva al bene dell’uomo, ma soltanto a quello della casta sacerdotale al potere. La legge era uno strumento per dominare, per opprimere il popolo e il risultato è che il popolo è morto.
«Toccò la bara, mentre i portatori si fermarono … Poi disse: “Giovanetto, dico a te, alzati!” Il morto si levò a sedere e cominciò a parlare». Il parlare è la prova evidente del ritorno alla vita. «E lo diede alla madre». Quindi Gesù risuscita le speranze del suo popolo e ne assicura l’avvenire.
«Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”». Perché un grande profeta?
Gesù viene riconosciuto “profeta” da coloro che lo avevano visto restituire vivo alla vedova il figlio morto. Il “profeta” viene riconosciuto cioè come un uomo che dà vita in situazioni di morte.
In concreto cosa può aiutare oggi noi credenti ad abbandonare stili di vita e modi di parlare irrilevanti ( e quindi di morte), restituendo carattere profetico alla nostra presenza in questo nostro mondo?
Se Gesù si fosse limitato ad accodarsi al corteo funebre, avrebbe, nella migliore delle ipotesi, solo aggiunto lacrime a lacrime; se si fosse limitato a porgere le sue “sentite condoglianze” alla vedova, non avrebbe fatto arretrare di un millimetro il dolore sordo di quella donna.
Ma Gesù non agisce così! Perché il profeta non agisce così! Gesù non rimane ai margini della tragedia che si sta consumando davanti ai suoi occhi.
La sua consuetudine con Dio – del quale ascolta parole di vita e al quale si rivolge costantemente nella preghiera – non glielo permettono. La consuetudine con Dio e l’ascolto di parole di vita lo spingono verso orizzonti di vita dove c’è morte; lo rendono portatore di vita dove c’è appiattimento, assuefazione, ripetitività di riti senza vita.
Questo è il profeta È uno che si coinvolge e che si lascia prendere. Non è un mestierante. É uno che, come Gesù, “sente compassione”; è uno che, come Elia, «si distende tre volte sul cadavere del bambino morto» (1 Re 17, 21). Solo atteggiamenti, gesti e parole lontani dalla retorica e quindi di intensa partecipazione fanno del profeta un’ immagine del Dio di Gesù.
Aiutaci, Signore, sull’esempio di Gesù e di Elia, a riscoprire la nostra vocazione profetica, in un mondo che continua a fare strada a non profeti. Qualche volta a ciarlatani vestiti da profeti.
Aiutaci a gustare la gioia di una profezia che diventa portatrice di vita e di gioia in un mondo votato sempre più spesso alla morte e alla tristezza.
Rendici “compassionevoli”, dopo averci fatto fare esperienza di compassione, ricevuta grazie alla tua vicinanza. Quella compassione che rianima, rialza e restituisce alla vita come uomini nuovi perché amati e risanati da Te.