Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
L’etimologia – dal latino sacrum facere (rendere sacro) – e il suo ambito semantico collocano la parola sacrificio nell’orizzonte proprio della religiosità sacrale. Ogni volta che si cerca di accostarsi al sacro, non tardano a farsi strada aspirazioni positive, ma anche desideri discutibili. È così in quasi tutte le religioni del mondo antico, come conferma la presenza di culti sacrificali con significati differenziati, non sempre con riti cruenti.
Una preziosa testimonianza è dato trovarla nella minuziosa descrizione omerica del sacrificio offerto da Nestore nella casa che ospita Telemaco (Odissea, III), nei racconti storici di epoca repubblicana e augustea (Sallustio e Tito Livio) e negli scritti di Cicerone e di Plinio il Vecchio.
Sempre, comunque, l’offerta di un sacrificio accompagna e sostiene l’aspirazione umana a varcare la dimensione del sacro o ad allontanare da sé, con l’intervento della divinità, le insopportabili fatiche di vivere nel mondo profano. Non è escluso che talvolta, anche in maniera inconfessata, si tenda a vincolare il divino attraverso il sacrificio, riducendolo così a strumento di ricatto. Tanto più impegnativo per la divinità quanto più consistente è il dono o la vittima offerta in un rito solenne.
La prospettiva cambia decisamente con l’affermarsi del cristianesimo che, in questo, è in continuità con la tradizione profetica. Quella, per esempio, rappresentata da Isaia. «Perché – si legge in 1,11 – mi offrite i vostri sacrifici senza numero? dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco».
Il Dio biblico salva e libera le imperfette proiezioni sul sacrificio, fino a capovolgerne la logica: è Lui infatti che, nella consegna di sé da parte di Gesù, offre gratuitamente la sua vicinanza salvifica all’umanità.
Un uso distorto e moralistico del concetto di sacrificio ha favorito un processo di corruzione della parola, fino a farne qualcosa di ripugnante per la cultura umanistica e per il mondo contemporaneo. Ha contribuito, a parte di questo processo, anche una certa tradizione cristiana. Soprattutto quando ha avallato l’idea, tutta pagana, che a conferire valore al sacrificio siano la sofferenza e la fatica, e non la forza dell’amore che le sorregge perché orientate al dono.
Dono di sé o di qualcosa di sé che, proprio per questo, smette di essere solo una privazione e diventa un valore. A vantaggio del singolo e della comunità. A patto però che il sacrificio sia di tutti e non solo dei soliti: quelli che non contano o contano poco.