Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Rispetto – Personalmente capovolgerei l’affermazione di E. Fromm, per il quale il rispetto è una questione di amore. Forse vale anche il contrario: l’amore è questione di rispetto, se è vero che il rispetto è, in fondo, un prendersi cura in maniera viva e consapevole dell’altro, sia esso una persona, una legge o la natura nella quale viviamo e dalla quale siamo circondati. La parola rispetto – non necessariamente purtroppo la sua reale pratica – sembra essere una delle parole più (ab)usate, senza conoscerne fino in fondo le implicanze semantiche e gli impegni conseguenti. Sì, perché il rispetto non è un concetto astratto. Esso è frutto di scelte consapevoli e concrete che, proprio per questo, richiedono impegno ed energie, soprattutto interiori. A confermarcelo è l’etimologia della parola rispetto. Essa va ricondotta a respectus, participio perfetto del verbo latino respicere, composto dal prefisso re seguito da spicere, traducibile letteralmente con guardare di nuovo, guardare indietro e considerare; ma anche con l’espressione “avere ri-guardo per qualcuno”. Presso gli antichi Romani, il verbo respicere, soprattutto nella sua forma imperativa, risulta essere un neologismo coniato per ammonire i superficiali, dissuaderli dall’esprimere giudizi su qualcosa o qualcuno e invitarli piuttosto a prestare la dovuta attenzione, prima di esprimere giudizi. Nell’Antichità classica l’aidos è la sensazione di riverenza o di vergogna di fronte a un’autorità riconosciuta. Il cristianesimo apre la strada alla concezione moderna del rispetto – sviluppata da Kant – unendo, alla dimensione verticale del rispetto dovuto a un’autorità superiore, la dimensione orizzontale di esso che si fonda sull’uguale dignità delle persone, al di là della funzione e del ruolo.
La dinamica interna, il sentimento e l’azione che porta con sé l’etimo della parola rispetto implicano di per sé il bisogno di doversi prendere del tempo per accorgersi degli altri, per conoscere chi o cosa si ha di fronte, cosa pensa e cosa di conseguenza ci domanda. È questa la prima forma di rispetto da esercitare. Non solo nei confronti della persona fisica, ma anche nei confronti dei suoi diritti e dei suoi sentimenti. I diritti e i sentimenti di chi mi sta di fronte valgono quanto i miei. Il rispetto per se stessi – afferma M. Bakunin – va di pari passo col rispetto degli altri: “Io sono un uomo libero solo in quanto riconosco l’umanità e la libertà di tutti gli uomini che mi circondano. Rispettando la loro umanità, rispetto la mia”. Premessa imprescindibile è l’accoglienza dei ritmi e dei limiti, dei sentimenti e delle attese propri e altrui. Rispettarli non vuol dire accettare tutto e comunque. Il rispetto infatti non è la tolleranza; si tollera ciò che di per sé è negativo. Il rispetto non va confuso nemmeno con la stima: abbiamo il dovere di rispettare tutti, ma non quello di stimare tutti. Né il rispetto può essere ridotto a una questione di buone maniere, o peggio ancora a deferenza, decoro o rispettabilità borghese.