Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Ripartenza. Sta diventando la parola d’ordine, ripetuta ossessivamente in questo periodo; entrata di diritto negli auguri per l’inizio di un nuovo anno. Al solo pronunziarla, alcuni pensano di averla già riempita di contenuti credibili e di aver dato forma compiuta a un futuro che esige invece ben altro per divenire presente che rigenera e rimette in moto la voglia di vivere.
La particella ri, che precede il sostantivo partenza, non può indicare soltanto il «ritorno a una fase anteriore, dopo il compiersi di un’azione opposta a quella indicata dal verbo semplice» (Vocabolario Treccani online). Essa può spalancare un mondo e un modo di stare insieme inediti. A patto però che si abbandoni la convinzione che per ripartire basti sostituire sogni e progetti concreti con un decreto. A patto cioè che – a coloro che «ti ripetono che puoi fermarti a mezza via o in alto mare» – si sia pronti a rispondere «che non c’è sosta per noi, ma strada, ancora strada, e che il cammino è sempre da ricominciare» (E. Montale, A galla).
Riparte allora solo chi, a seconda delle circostanze, non si sottrae al vento sferzante che arriva talvolta a rigare di lacrime il volto, con la sua esigente richiesta di assunzione di responsabilità; oppure chi è disposto ad accogliere la brezza, delicata ma sufficiente ad allontanare le nuvole, facendo intravedere i colori, oltre il grigio persistente del nostro tempo.
Riparte davvero solo chi, proprio per questo, accetta la sfida del nuovo e ricomincia. Pronto a battere al ritmo di un amore che non lascia indietro nessuno e si fa carico della vita residua di chi non vuole proprio lasciarsi andare. Perché la ripartenza non è impresa dell’élite.
Non basta ripensare l’organizzazione esterna, personale o collettiva, per ripartire. Bisogna mettersi in ascolto di eventi ed emozioni che fremono dentro, se non si vuol correre il rischio di restare impantanati nelle sabbie mobili della responsabilità delegata ad altri e delle facili illusioni, coltivate per distogliere lo sguardo dalla realtà. E allora: «Ripartiamo con occhi dilatati in questo crepuscolo prolungato, in quest’ora sacra, profonda, dove tutto ciò che non è luce brucia nel fuoco puro del vento. Ripartiamo da qui, con un sogno nel cuore, perché l’alba ci trovi avvolti di lacrime di brina, ma desiderosi di aprirci alla luce ostinata dolce di Dio» (Luigi Verdi).
È una luce che non ci dispensa dal tenere i piedi ben saldi sulla terra, chiedendoci di «imparare a scendere a compromessi con l’incertezza, a vedere la complessità e cercare di scendere a compromessi con la complessità» (E. Morin).