Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
L’aver assegnato alla parola queer un profilo per lo più etico-politico ne ha ristretto il campo semantico, provocando, da una parte, una sorta di sua esaltazione e, dall’altra, una forma di ostracismo.
La polarizzazione che sembra si sia creata intorno a questa parola va sfidata, anche per superarne l’instabilità semantica. Siamo al punto che pronunziare la parola queer o negarne l’uso sembra già, di per sé, definire l’appartenenza a mondi lontani, se non opposti, tra loro.
Eppure, il termine queer, nella sua derivazione linguistica, va in altre direzioni. Il tedesco quer significa “diagonale” e “di traverso”, aperto alla valorizzazione delle differenze. Se poi si prende in considerazione il più praticato riferimento alla lingua inglese, queer ha il significato di strano, ambiguo, bizzarro, eccentrico, stravagante.
Sono diversi i contesti (culturale, sociale, personale) nei quali la parola queer compare. L’uso plurimo che ne viene fatto – nelle discussioni accademiche e nelle manifestazioni di piazza, passando per i media e la cultura pop – rende evidentemente difficile definire in maniera univoca il significato di queer. Fino a far assumere a questo termine sfumature e connotazioni diverse, talvolta anche contrastanti.
Sta di fatto che, prima di presentarsi come termine di empowerment e di inclusione, la parola queer era scivolata verso la stigmatizzazione, e considerata un insulto. Indicava le persone che si discostavano sempre dalle norme di genere e sessuali tradizionali. Il passaggio intermedio è rappresentato dall’uso moderno del termine Queer con riferimento a un’identità fluida e inclusiva sessuale e di genere.
Non mancano contesti culturali nei quali compare un uso metaforico della parola queer. In essi queer sfida le categorie prestabilite e le aspettative sociali. Si fa strada così la presumibile ricchezza – oserei dire, bellezza – di questa parola, che sta essenzialmente nella sua apertura, nella sua flessibilità e nello spingere a sperimentare uno sguardo obliquo, capace di descrivere un approccio inclusivo nei confronti di tutto ciò che è vita. Accogliendo l’invito di Emily Dickinson: «Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua».
La parola queer, insomma, non è, in questa ottica, una parola che discrimina. In nessun senso. Più di ogni altro termine, sembra collocarsi all’incrocio tra linguaggio e società. Con l’aspirazione a liberarsi dall’uso corrente al quale sembra inesorabilmente destinata da chi vi ricorre soltanto per designare la vasta gamma di identità di genere e sessuali che non rientrano nelle categorie tradizionali di uomo/donna o eterosessuale/omosessuale.