Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Il nostro mondo, strutturato sull’economia, ha ristretto sensibilmente il significato della parola precarietà, riconoscendole quasi in toto il significato attribuitole da P. Sylos Labini. Per l’economista italiano, la precarietà indica la situazione di chi vive una condizione di insicurezza, dovuta alla mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro. La derivazione etimologica – dal latino prex/cis (prece, preghiera) – ed altri ambiti del sapere raccontano la parola precarietà in maniera più ampia. Precario è tutto ciò che posseggo perché un altro me lo ha concesso, in seguito a una mia esplicita o implicita richiesta/preghiera. Per estensione e per derivazione etimologica, precario è tutto ciò che non è stabile e porta ad accettare che vi sono realtà e condizioni personali o sociali che non dipendono esclusivamente dalla mia volontà.
La pensava così il nostro Ungaretti: «Mi riconosco immagine passeggera / Presa in un giro Immortale» (Sereno). Prima ancora, sulla stessa lunghezza d’onda si era posto il più antico poeta greco, Archiloco (Fram. 58D). Questi, riflettendo sulla vita umana, invita a prendere atto della precarietà da cui essa è segnata e delle varianti che, indipendentemente dalla volontà dei singoli, possono intervenire nel suo svolgersi. Per far fronte a tutto ciò, il poeta di Paro propone di coltivare la τλημοσύνη (tlemosùne). Parola che riassume un insieme di atteggiamenti contrastanti, che vanno dalla rassegnazione al coraggio, dalla resistenza alla temerarietà.
Una straordinaria lezione, nella quale ci viene consegnata una concezione dinamica e realistica della vita. Senza cedimenti al fatalismo. Ben lontana dalla pretesa coltivata da gran parte dell’antropologia illuminista e positivista. Tendente, per ragioni diverse, a esorcizzare la condizione di precarietà dell’uomo, fino a coltivare una sorta di indifferenza nei confronti di tutto ciò che la racconta. Ma l’invito a fare saggiamente i conti con la precarietà che segna la vita di ogni essere umano, è ben lontano anche questo da certe correnti psicoanalitiche tuttora influenzate dal fondatore. Freud riteneva infatti alienante che la vita dei singoli potesse stare anche nelle mani di un Altro.
Una positiva e costruttiva visione della precarietà deve saper andare oltre il pietismo e la commiserazione consolatoria. La precarietà infatti non è solo una questione di contratto di lavoro. È una dimensione umana che, nelle persone consapevoli, provoca domande lancinanti, che raccolgono tutta l’incertezza che accompagna ogni relazione intersoggettiva in quanto incontro tra libertà. Da precarietà è segnata anche la preghiera, in attesa che venga accolta. Della stessa precarietà fa esperienza chi ama, dal momento che amare è, in parte, scommettere sulla libertà e sulla promessa di un altro.
All’inquietudine esistenziale che accompagna la dimensione precaria della vita non ci si sottrae scegliendo la strada della chiusura, dell’intolleranza o del fanatismo. Queste rivelano, ricorda Simone Weil, modestia intellettuale e grettezza etica.