Periferia. Parola passata, col tempo, a indicare una condizione più che un luogo fisico. Nel senso che essere periferici non vuol dire solo essere lontani e marginali rispetto a un centro fisico. Essere periferici vuol dire anche contare poco o niente oppure vivere in condizioni di isolamento personale o comunitario.
Periferia sembra esser divenuta la nuova parola passepartout in ogni dibattito politico o programma elettorale. Oggetto di attenzione a intermittenza e di strumentalizzazione sistematica.
L’origine etimologica della parola periferia si trova nel latino peripherĭa, con antecedenti nel greco peri-phéreia: ciò che circonda, ciò che è ai margini e lontano rispetto a un centro particolare.
Se il centro è luogo di insediamento storico, dell’amministrazione e del governo, delle relazioni e degli scambi facilitati, la periferia è vista soprattutto come luogo dell’assenza. Assenza di storia, di regole, di servizi, di armonia, di sicurezza, di qualità e di identità. Di periferia insomma si parla per lo più per negazione, quasi a sancire, in ogni caso, l’esistenza di una distanza antropologica incolmabile tra centro e periferia. Distanza che rimarrà finché non ci si libererà definitivamente dal considerare la marginalità come unico metro di classificazione della periferia e finché, come si è detto, si continuerà a definirla per negazione.
La periferia, sia spaziale che esistenziale, è anche luogo di potenzialità nuove e inedite. Bisogna ricercarle. Ed è lo sforzo, talora riuscito, messo in atto da nuovi urbanisti e city designer. Al pari di ciò che avviene per la periferia come luogo e come spazio, riqualificare la periferia-condizione esistenziale richiede investimento di energie, cambio di prospettiva e conoscenza. Lo ha capito bene papa Francesco quando, nella Evangelii gaudium, ha scritto: “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica” (n. 198). Al di là di inevitabili tecnicismi, parlare di poveri come “categoria teologica” vuol dire considerare i poveri (chi più periferici di loro?), con la loro condizione e con le loro attese, come metro di giudizio per l’azione della Chiesa. Sull’esempio di Gesù di Nazareth, “uomo periferico”. Non era cittadino romano né faceva parte della élite giudaica. Nato nella periferia della Giudea, a sua volta periferia della Palestina e dell’impero romano. Gesù si rivolge alle periferie esistenziali, dando dignità ad ammalati, ossessi, poveri, stranieri e peccatori. Rimettendoli al centro, qualche volta anche fisicamente (Mt 18,1).
Certo, non siamo così ingenui da ignorare che l’evoluzione delle periferie oggi, sia quelle spaziali sia quelle esistenziali, presenta elementi di analisi complessi e spesso contraddittori. Si tratta comunque di elementi che, conosciuti, possono suggerire criteri per la risoluzione dei problemi che affliggono le periferie. A patto che ci si liberi dell’unico sguardo sulla periferia, fatto di distanza e di subordinazione a un centro.