Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole
Una licenza, rispetto al modo consueto di procedere. Non parto subito dalla parola “passaggio”, per cercarne l’etimo e la sua eventuale radice. Faccio il percorso inverso. Parto dalla parola ebraica Pesach. Collegata al verbo aramaico pasḥa, col significato di zoppicare, eseguire una danza rituale (1Re 18,21.26); ma, in senso figurato, anche col significato di passare oltre, saltare. Nella Bibbia, la parola Pesach ricorda YHWH che passò oltre le case degli Israeliti, mentre colpiva quelle degli Egiziani (Es 12,13.23.27; cfr. Is 31,5). Per gli Ebrei Pesach è anche il passaggio, attraverso il mar Rosso, dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i Cristiani Pesach è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù. E la Domenica è la memoria settimanale della Pasqua di Cristo.
Ha senso celebrare Pesach mentre si continuano a contare numeri sempre preoccupanti di persone contagiate? E mentre numeri altrettanto preoccupanti riguardano i morti? Con l’aggravante, in questo caso, del dolore di non poter stare loro vicino, accogliendone gli ultimi sguardi. Con una carezza.
La Pasqua, in queste circostanze, non è un diversivo per dimenticare, almeno per un giorno, le tenebre che attraversano il nostro intimo e abitano le nostre case. Non è un modo per girare alla larga dal dolore che segna persone e famiglie, che piangono la morte inspiegabile di un parente o di un amico. Non è un invito a distogliere lo sguardo da tutto ciò che ha sfigurato e continua a sfigurare tante storie, tante relazioni e tanti progetti.
Fare Pesach, guardando al Risorto, è cercare e trovare la forza per aprirsi a possibilità coltivate, accompagnate e fatte crescere, semmai nel rigido inverno di una epidemia. Vi sono momenti, e sono questi, nei quali vivere l’esperienza del passaggio è alzare e aiutare ad alzare lo sguardo, desiderare “che passi” e spendersi perché avvenga ciò che tarda a venire.
Mentre guardo al momento in cui sarà passato questo periodo di grande dolore e di diffuso smarrimento, penso che a ognuno di noi verrà chiesto quanto ha scritto Ch. Singer: “Non: chi sei stato? Ma: che cosa hai lasciato passare attraverso di te? … Di che cosa ti sei preso cura? A che cosa hai aperto il passaggio?”.
La risposta a queste domande sarà tanto più vera quanto più saremo capaci di interiorizzare una delle lezioni della Pasqua: la percezione, nel passaggio dalla morte alla vita e dalle tenebre alla luce, della continuità tra quello che siamo e viviamo e quello che saremo e vivremo, dopo questi momenti di buio e di smarrimento. Ricordando un verso di Alda Merini: “La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori”. Questa scintilla di luce che scaturisce da una frattura, questo lampo che improvvisamente rischiara quel che sembrava una rovina o una maceria, è quanto di più grande possiamo vivere. É l’esperienza più vicina a Pesach. Solo chi, guardando al Risorto, la vive così può augurarsi e augurare: “Chagh Pesach Sameach”; “Buona Pasqua”; “Buon passaggio”.