Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
La chiarezza semantica di cui gode oggi la parola ostaggio non è la stessa che l’ha accompagnata nel corso della storia. Questa infatti ci racconta di una parola che, almeno inizialmente, non indicava qualcuno preso o trattenuto per forza e sul quale pendeva una grave minaccia.
La parola ostaggio è un gallicismo risalente agli inizi dell’anno Mille, etimologicamente riconducibile a hostage, derivato dal latino hospes, col significato di ospite. In gran parte del mondo greco-romano, l’ostaggio poteva essere contemporaneamente ospite, prigioniero o mediatore. A determinarne concretamente la condizione contribuiva il contesto politico e il rapporto tra le parti in contesa. Era comunque molto diversa la condizione dell’ostaggio politico rispetto alla condizione dell’ostaggio di guerra.
Esempi noti di ostaggi politici sono Polibio, storico greco ostaggio di Roma, e Filippo il Macedone. Quest’ultimo, ostaggio volontario, entra come parte integrante negli accordi politici con Tebe. Ha il compito di garantire la pace e sancire una tregua stabile tra le parti. E come tale viene trattato, fino a crescere culturalmente, ad acquisire grandi capacità tattiche e a creare le condizioni per educare, sotto la guida di Aristotele, il figlio Alessandro III, Alessandro Magno.
L’ostaggio di guerra è invece posto, sotto minaccia, a garanzia degli interessi del vincitore. Privato di ogni libertà di movimento e paralizzato nella possibilità di disporre di sé, l’ostaggio di guerra è un cinico strumento utile per forzare la mano e ricattare. La figura dell’ostaggio di guerra è quella più vicina all’uso che si fa oggi della parola ostaggio. Entrambe rappresentano un elemento estremo e patologico nella negoziazione. L’ostaggio infatti è ridotto a moneta vivente e a merce di scambio per garantirsi forza contrattuale.
Ma non è solo la guerra a creare ostaggi. Ci si può sentire anche ostaggi di se stessi! Consegnandosi, ad esempio, non sempre volontariamente, ad attese che, alla prova del reale, finiscono per mostrare il volto crudo della irrealizzabilità; all’ambiente, che presenta talvolta le caratteristiche dell’aria irrespirabile; all’assenza totale di motivi per vivere o a emozioni che tendono a ridurre le capacità di discernimento. Si può essere insomma prigionieri di una vita che non si sente propria e ostaggi di scelte non adatte o di eventi soltanto subiti.
Bisogna prendere atto che non sempre si riesce ad allargare le sbarre di questa prigione. Soprattutto quando si pensa di poterne uscire da soli, senza farsi aiutare a guardare oltre le sbarre metaforiche che tendono a ridurre la nostra voglia di vita.