Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Muro – Non è nuova l’insistenza, a tratti cinica, con la quale si continua a minacciarne la costruzione e, di fatto, a costruire muri. “Niente di nuovo sotto il sole”, avrebbe detto un po’ sconsolato Qoèlet (1,9). Tim Marshall riferisce infatti che almeno 65 paesi hanno costruito barriere lungo i propri confini dalla fine della Guerra Fredda. “Non funzionano quasi mai – osserva il giornalista inglese – ma sono potenti simboli di azione contro i problemi percepiti”. E, l’essere un simbolo rassicurante contro problemi reali o percepiti, crea da sempre forti consensi intorno alla realizzazione di muri.
Con la parola murus gli antichi romani indicavano la muraglia innalzata a protezione delle città; paries era invece la parete interna a una casa o ad altri edifici. Sempre e comunque il muro è elemento di separazione. Anche quando, come nel caso del muro fatto costruire da Israele, lo si è definito “Barriera di difesa e di protezione”. I 730 Km di questo muro sono ovviamente altro rispetto all’ ha kolt ha ma’ aravi (“Muro delle lamentazioni” o “Muro occidentale”), che unisce nella preghiera e nella memoria.
Ma non ci sono solo muri fisici. Altri se ne ergono in maniera subdola e silenziosa dentro e intorno a noi. Fatti di pregiudizi tanto invisibili quanto difficili da valicare. Immateriali ma solidi. Vere e proprie barriere culturali ben più impenetrabili di quelle fisiche, anche perché le precedono. Costruire muri o abbatterli, costruire strade o interromperle è divenuto sempre di più un codice politico e un programma culturale. Insomma, si scrive muro ma si legge fragilità, insicurezza, pregiudizi, paure; frutti, spesso, di ignoranza o non conoscenza di cosa c’è oltre. «Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!», ammoniva Italo Calvino. E spesso, dopo il primo smarrimento, “oltre” si incontra diversità e ricchezza. Proprio quelle nascoste o negate dal muro dell’indifferenza, che spesso si erge invalicabile davanti a chi vive nel bisogno. Come chiamare, poi, se non “muri di gomma” – se possibile, più invalicabili dei muri di mattoni – l’indifferenza contro cui rimbalzano richieste di aiuto ed esigenze di verità e di giustizia?
Consapevole del pericolo che quella dei muri di separazione possa diventare sempre di più una cultura, in un’intervista a una rete televisiva messicana, papa Francesco ha invitato a non proseguire con la «cultura del difendere il territorio facendo muri»; ed ha aggiunto l’appello-speranza a non costruire muri per non restarne prigionieri.
Scavalcare i muri, in senso fisico o simbolico, è l’azione che si contrappone alla cultura e alla costruzione di muri. Il bisogno ed il desiderio di aprirsi dei varchi per scavalcare muri di ogni genere sono così forti da spingere ognuno a inventarsi modi e tempi propri. Come Vincent Van Gogh che si domanda: «Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può».