Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
E se l’intelligenza artificiale (AI/IA) – parola polirematica utilizzata già nel 1954 da John McCarthy – si rivelasse utile a coltivare la sana ambizione di vivere in un mondo meno polarizzato e più impegnato a rendere armonico il rapporto dell’uomo con la tecnologia?
Gli elementi di cui disponiamo oggi per rispondere a questa domanda sono ragionevolmente più affidabili di quelli di cui disponevano G. Longo (Il simbionte. Prove di umanità futura, 2003) e il filosofo statunitense John Searle. Questi, nel 1980 (Menti, cervelli, programmi), inizia una lunga polemica con l’intelligenza artificiale “forte”, contro l’idea che un computer possa pensare; lo fa analizzando, in La razionalità dell’azione (2003), il legame fra azione e libero arbitrio. Un primo passo, ritengo, verso il recente AI Act della Commissione Europea.
Il termine intelligenza deriva dal latino intelligentia/intellìgere, formato dalla preposizione intus (dentro) e dal verbo legĕre (cogliere, raccogliere, leggere). Letteralmente: “leggere dentro, vedere in profondità”. Operazione non del tutto riconducibile al compito assolto da una macchina o da una tecnologia, per quanto sofisticata possa esser, come l’IA. Questa infatti processa e assembla una mole impensabile di dati, mettendoli a nostra disposizione dietro precisa domanda o …interesse. Tanto che, a ragion veduta, nell’illuminante Il visconte cibernetico (2023), A. Prencipe e M. Sideri si chiedono e avvertono: «La qualità suprema dell’umanità – l’intelligenza – non sta forse nel poter decidere le domande, più che di affidare le risposte alle supertecnologie che stanno mostrando le loro incredibili capacità “combinatorie”, giocate, in definitiva, sui numeri e sulle probabilità?» (p. 21).
Restare i depositari delle domande giuste – o appropriate! – è la strada da percorrere per non lasciarsi paralizzare dalla paura della tecnologia e per realizzare una feconda convivenza tra Homo sapiens e Machina sapiens (p. 63), tra intelligenza artificiale generativa e intelligenza creativa. Fondamento, questa, non solo di scoperte scientifiche, innovazioni e invenzioni tecnologiche, IA compresa. Ma garante anche di un esercizio precluso all’IA: l’ars dubitandi.
Sulla base di queste premesse, l’IA resta una grande ed esaltante sfida. Purché non si smetta di mantenere la centralità dell’Accountability, della necessità, cioè, di riservare all’uomo piuttosto che alle macchine la responsabilità sia della costruzione degli algoritmi sia delle evoluzioni che queste possono avere nel futuro.
Quando ciò non dovesse accadere, è facile che l’essere umano sviluppi la sindrome del Golem: l’ossessione cioè di essere superato dalla sua stessa creatura.