Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Solo dopo aver letto Gli auguri dell’innocenza di William Blake, e La nuova innocenza di Raimon Panikkar, ho capito appieno il non senso di una delle parole d’ordine dei nostri tempi: «Nessuno è innocente. Tutti sono colpevoli».
Un modo per consentire al cinismo imperante in certi ambienti di mettere tutti sullo stesso (basso) piano e sentirsi autorizzati a infangare chiunque sia riconosciuto in possesso di una qualsiasi forma di innocenza. Un modo, insomma, per cancellare dal vocabolario la parola innocenza. Oppure di evocarla solo in riferimento alla mitica condizione in cui si sarebbero trovati Adamo ed Eva, prima della scelta di affrancarsi dalla relazione armoniosa vissuta con Jhwh. Di questo avviso, lo sappiamo, è anche tutta l’iconografia dell’innocenza perduta, raccontata nel libro della Genesi.
Sia il poeta britannico Blake sia il teologo indocatalano Panikkar invitano ad abbandonare la concezione dello stato di innocenza, che fa apparire la condizione umana come il frutto della decadenza dall’età dell’oro. E la nostra vita come una continua e inutile rincorsa per recuperare uno stato di purezza che mai raggiungeremo. Prendendo le distanze da questo modo di intendere l’innocenza, le inevitabili fatiche della vita ci educheranno senza accecarci. E saranno esse stesse luogo ed esercizi per vivere una nuova innocenza, simile alla semplicità di cuore (Francesco d’Assisi).
Innocenza, così, non è ciò che si conserva o che dolorosamente si perde. È piuttosto ciò che – giorno per giorno, relazione dopo relazione ed emozione dopo emozione – si va costruendo dentro di noi. Fino a «vedere un mondo in un grano di sabbia / e un universo in un fiore di campo / possedere l’infinito sul palmo della mano / e l’eternità in un’ora» (Blake). Innocenza, in questo senso, è la capacità di vedere, anche nei segni più piccoli, la grandezza e il valore di ciò che ci circonda, fino a sentircene parte.
È la «nuova innocenza», come la chiama Panikkar. Distante dalla ingenuità. Assomigliando piuttosto a una esperienza paradossale, la nostra, nella quale ci si sente incamminati. Pronti sempre a fare i conti con l’ambiguità della convivenza, l’ambivalenza della politica e l’aridità che tante volte accompagna la stessa esperienza religiosa. Senza avere paura – aggiunge il teologo – né di sé né degli altri.
Innocente allora è – come vuole la stessa etimologia – «colui che non nuoce» a sé e agli altri. Rinunziando al giudizio e alla condanna, senza scadere nell’inerzia o nell’indifferenza.
Nella ricerca consapevole e nella scelta costante di ciò, l’innocente preserva l’armonia delle relazioni, coltiva il gusto di sognare e custodisce la capacità di stupirsi.