Abitare le parole. La rubrica su queste pagine di Nunzio Galantino in un libro. Bussola sui temi decisivi in un’epoca di forte transizione e mutamento culturale
di José Tolentino de Mendonça
Sole 24 ore – 26 novembre 2023
«Abitare le parole» è il titolo azzeccato che Nunzio Galantino ha scelto per la sua rubrica settimanale sul Sole 24 Ore Domenica. Quella che accoglie, domenica dopo domenica le parole che ora vediamo raccolte in queste pagine dal titolo Oltre la superficie. Liberare la luce nascosta nelle parole. Altro titolo azzeccato non perché semplifichi il cammino al lettore, ma precisamente perché lo problematizza e interroga, dato che, fin dall’inizio, amplifica in chiave sapienziale l’orizzonte della sua proposta.
Nella scelta di Galantino possiamo anzitutto vedere una utile evocazione della filosofia di Heidegger. Penso, in particolare, a quel testo del filosofo che è la conferenza Costruire abitare pensare, del 1951. Vi rintracciamo qualcosa che diventerà poi il filo di Arianna del percorso di Galantino: abitare/liberare le parole è ben di più che trovare in esse un alloggio provvisorio o ciò che potrebbe costituire una risposta unicamente per le questioni penultime. Heidegger esemplifica: «Il camionista è di casa sull’autostrada, ma non è quella la sua abitazione; l’operaia è di casa nella filanda, tuttavia non è quella la sua abitazione; l’ingegnere capo è di casa nella centrale elettrica, ma non vi abita. Tutti questi edifici danno alloggio all’uomo». Nemmeno a Galantino le parole interessano come indirizzi strumentali dei quali servirci, come precari segni a servizio dei bisogni immediati, incapaci di ricondurci al nucleo di ciò che autenticamente ci definisce. Per questo c’è una linea di consonanza con quanto il filosofo ricorda: «Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare… L’abitare è il tratto fondamentale dell’essere dell’uomo». Non stupisce che, più che un lessico destinato a dare spazio a un esercizio di natura filologica o un dizionario sull’ermeneutica contemporanea di alcune parole, questo volume costituisca fondamentalmente una riflessione antropologica aperta sul presente. È una grammatica, sì, ma una opportunissima grammatica dell’umano con l’intento di contribuire all’urgente riflessione circa le questioni fondamentali che si pongono in questo momento di transizione epocale e di mutamento culturale.
Che cosa significa «abitare»? In questo verbo Martin Heidegger intravede un duplice significato, di «custodire» e di «coltivare», quasi a concretizzare un accenno a quanto ci dice Gen 2,15: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». «Custodire» e «coltivare» può essere detto con una sola parola, la cui antica accezione (che, come ricorda Heidegger, già Lessing conosceva) coincideva con la parola «salvare». «I mortali abitano in quanto essi salvano la terra… Salvare non significa solo strappare da un pericolo, ma vuol dire propriamente: liberare qualcosa per la sua essenza propria». Galantino va in questa direzione quando formula l’esperienza dell’abitare/liberare come un «rimanere/restare fermo, saldo», e che spiega così: «Vi sono […] forme di comunicazione che gradualmente, ma inesorabilmente, tendono a indebolire, se non proprio a demolire le risorse interiori di ciascuno di noi. Di fronte alla loro invadenza, può solo salvarci la “resistenza intima”, che nulla ha a che fare con il comodo e sterile intimismo. Si tratta piuttosto di una resistenza che si nutre di responsabilità, non intende rinunziare all’analisi della realtà, resta fedele alla terra e, per non arrendersi alla mediocrità, non ama pascersi di slogan irresponsabili».
Riferendosi alla stagione storica che stiamo vivendo, lo scrittore Claudio Magris ha denunciato: «La parola viene sottoposta a un’insopportabile tensione». E in effetti, fra le tante competenze che oggi ci sono richieste, continuano a rimanere delle lacune. Una di queste è imparare a conoscere le possibilità umane e spirituali che le parole possono contenere. Siamo scolarizzati fin dalla più tenera età, lavoriamo sull’intelligenza logica e matematica, aumentiamo le competenze per amministrare la geometria della ragione, ci iniziamo al senso della realtà, almeno di quella immediata e visibile, con tutti i suoi appelli. Tutte cose di grande utilità, sicuramente, ma che non esauriscono i bisogni che ciascuno porta con sé nel suo bagaglio di viaggiatore. Conosciamo il mondo esterno fin nel dettaglio più ossessivo, e ci mancano le risorse per riconoscere e cartografare il nostro paesaggio interiore. Moltiplichiamo la quantità dei saperi, e ignoriamo noi stessi. Familiarizzati con un numero sempre crescente di tecnologie e di formule, non di rado ci scopriamo analfabeti della nostra stessa anima, che mai abbiamo veramente imparato a esprimere con parole. Nunzio Galantino ci offre una sorta di re-iniziazione all’incontro e all’uso delle parole essenziali. In questo senso, ci trasmette un manuale di speranza per i tempi sfidanti che stiamo vivendo.
Leggendo questo suo elogio della parola, mi sono ricordato di una bellissima storia che ho sentito raccontare dal poeta Tonino Guerra: quella di una cena di Natale preparata con parole. Prigioniero in un campo di concentramento in Germania c’era un gruppo di italiani. Arrivò il giorno di Natale, e con la solita, identica, razione di miseria. Per consolarsi, ognuno di loro si mise a ricordare quello che mangiava a casa in quella festa: tagliatelle al ragù, ravioli alla genovese, tenero vitello al vino, con buona polenta, e così a seguire. Lui non l’ha detto, ma credo sia stato proprio Tonino Guerra a proporre di creare, in quel momento, un piatto insieme. «Possiamo fare una pasta di parole!», buttò lì. «Come sarebbe a dire?», volevano sapere gli altri. Tonino cominciò allora a parlare velocemente, distribuendo ordini precisi. «Metti l’acqua a bollire. Tu, vai e prendere una cipolla. Dai, dai, falla soffriggere in una padella. Uno spicchio d’aglio. E tu, stai attento al fuoco. Aggiungi quattro cucchiai d’olio. Tu, porta la carne macinata. Un bicchiere di vino bianco… dov’è il bianco? Che meraviglia! Sentite già che odorino? Mettete sale e pepe. La pasta è cotta. Scolatela subito. E tu… tu mettici il sugo. Io ci metto una nuvola, solo una nuvola di parmigiano e… ci siamo [applaude]. Presto, presto, qui ognuno con il suo piatto». Quegli uomini misero le mani a forma di conchiglia e con gesti fiduciosi le portarono alla bocca, assaporando lentamente il prodigio invisibile. Quando l’ultimo fu servito, il primo domandò: «Posso averne ancora?».
Abbiamo bisogno di tornare ad abitare le parole. E queste pagine possono sicuramente accompagnarci.
In allegato l’articolo pubblicato sul Sole 24 ore
Immersi nella grammatica dell’umano