Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Identità – Dal latino identĭtas – derivato da idem (stessa cosa), che nel significato riproduce il greco ταὐτότης (calco) – la parola “identità” indica, in prima battuta, la perfetta uguaglianza fra cose, oggetti, concetti.
In Filosofia, il “principio di identità”, assieme a quelli di “non-contraddizione” e “terzo escluso”, costituisce la base della Logica aristotelica. E si esprime nella forma ‘A è A’.
Grande importanza (con qualche ingenuità non priva di equivoci) ha assunto, soprattutto negli ultimi anni, il riferimento all’identità in Psicologia. Qui è possibile infatti incontrare posizioni estreme. Si va dalla concezione statica dell’identità, intesa come sostanza o essenza immutabile, all’idea di identità come risultato di un processo narrativo nel quale è il Sé narratore a definire la propria storia, la propria vita e quindi la propria identità.
Superare questi estremismi permette all’individuo di percepire la propria come l’identità di un essere-in-relazione. Identità che, proprio per questo, è caratterizzata da un costante processo dinamico, giustificato così da Montaigne: “C’è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri”. Non si può allora che parlare di identità aperta; che non vuol dire identità priva di punti di forza; essa è piuttosto frutto della consapevolezza che già “al nostro interno abita una confederazione di anime” (Pessoa). Una identità quindi aperta e che si nutre di relazioni. Un’identità che non ha nulla a che vedere con i drammatici arroccamenti su posizioni identitarie, che escludono/chiudono, e dove l’alter (altro) diviene alienus (estraneo).
La percezione di avere una propria identità e l’esigenza che gli altri la riconoscano è condizione necessaria per una vita equilibrata e socialmente feconda. L’identità aperta è la vera sfida di questi tempi. Il nostro nome è, sì, la nostra identità, ma concorrono a formarla le nostre relazioni, le nostre conoscenze, le nostre scelte, le nostre emozioni e i nostri sentimenti. È così che l’identità, più che una corazza impenetrabile nella quale è facile morire di asfissia, diviene invito costante a ricavare frutti positivi dalla diversità delle esperienze, delle aspirazioni, delle relazioni e dei sentimenti. L’identità non aperta forse può essere un porto sicuro, certamente è un luogo chiuso, dove ci si nasconde per non cogliere le sfide del molteplice e dell’alterità. Le uniche sfide che arricchiscono. Lo aveva capito bene Dietrich Bonhoeffer – fatto rinchiudere in un lager, prima, e fatto impiccare, poi, da Hitler – quando scrisse: «Chi sono io?/Spesso mi dicono/Che esco dalla mia cella/Disteso, lieto e risoluto/Come un signore dal suo castello./Chi sono? […]/Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?/O sono soltanto quale io mi conosco? […]/Chi sono? Sono questo o sono quello?/Oggi sono uno, domani un altro?/
Sono tutt’e due insieme? […]/Chi sono?/Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo son io, o Dio».