Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Che si stia perdendo per strada, nel nostro mondo ipertecnologico, il senso che può continuare ad avere la fantasia, è testimoniato dal numero sempre crescente di chi, al sentirne parlare, si sente subito trasportato in un mondo fatto di evasione dal reale o di sogni a occhi aperti.
Eppure, sono tante le smentite che giungono dagli spazi abitati dalla fantasia, come la moda, il ballo, lo sport, il settore tipografico, la psicoanalisi, l’arte e la musica. Ambiti del reale nei quali la fantasia permette libere associazioni e armonie sorprendenti. Al di là di schemi prefissati, capaci di provocare emozioni intense e reali, come quelle che trasmette, ad esempio, l’ascolto della Fantasia cromatica di J. S. Bach o della Wanderer-Fantasie di F. Schubert.
Non è difficile cogliere la differenza tra ciò che è pura osservanza di regole e ciò che è felicemente contaminato dalla fantasia. Quella che sprigiona le forze creative della persona e dona una diversa sensibilità nel guardare le cose e nel vivere le relazioni.
All’origine della parola fantasia, nelle lingue romanze e germaniche, vi è il verbo greco phaino, col significato di mostrare, rivelare, far apparire. Negli autori classici sembra non esserci mai il ricorso al sostantivo phantasĭa per indicare una invenzione priva di legami con la realtà o con la storia. Frequente è invece il ricorso al verbo phaino per rendere visibili sentimenti positivi (benevolenza) o negativi (ira) che si coltivano nel proprio animo. La fantasia viene così riconosciuta come la naturale attività umana, che mostra ciò che ci portiamo dentro, e ci fa sentire vivi, senza porsi però come alternativa alla ragione. La fantasia, afferma Gianni Rodari, «fa parte di noi come la ragione: guardare dentro la fantasia è un modo come un altro per guardare dentro di noi».
Quando manca un equilibrato rapporto tra fantasia e ragione, viene meno la consapevolezza della differenza tra ciò che è frutto di fantasia e ciò che attiene al reale. Trasformando così la fantasia in un patologico dinamismo compensatorio di aspettative rimosse e di desideri repressi. Proprio ciò che non si ritrova in Cosimo, il protagonista del Barone rampante di I. Calvino. Decidendo di rifiutare il piatto di lumache e di vivere sul ramo di un albero senza scendervi più, questo ragazzo di dodici anni sceglie di vivere tra cielo e terra, tra realtà e fantasia, per difendere il suo diritto di guardare la realtà e la casa in cui abita la sua famiglia da un punto di vista inedito. Consapevole che «la fantasia è un posto dove ci piove dentro», secondo l’incipit dantesco (Purgatorio, XVII, 25) della quarta delle Lezioni americane dello stesso Calvino.