Fama

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Per la parola fama, l’operazione di attribuire nuovi significati è riuscita proprio bene. All’inizio, infatti, non fu così!

Libellus famosus infatti era lo strumento di cui haters “ante litteram” si servivano per gettare discredito su una persona. Pagine diffamatorie fatte circolare ad arte. Finché, per un gioco di influenze linguistiche tra il francese (fameux) e il tedesco (famos) – tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento – non si passò a definire famoso chi era ritenuto degno di grande considerazione. Significato accolto nel loro vocabolario anche dai giuristi, per rappresentare la reputazione di cui ciascuno gode nell’opinione degli altri.
La storia della parola fama ci consegna un paio di verità. La fama non coincide necessariamente con la notorietà. Questa infatti non richiede nulla di più che l’essere presenti senza soluzione di continuità sugli strumenti della comunicazione, prescindendo da quello che si fa, si dice o si è. È l’impressione che ci consegnano molti noti personaggi, dai quali si sa già cosa aspettarsi. Noti perché interpretano fedelmente e con poco senso del pudore la loro parte.
L’altra verità: non basta aver fatto qualcosa di rilevante e, per questo, aver conquistato una buona fama. La fama va anche custodita perché non accada ciò che è capitato alla dea Fama, ultima figlia della Terra e da questa partorita per raccontare i misfatti degli dei. In un dipinto allegorico attribuito a Pietro Ricchi (1606 -1675), Fama si addormentata, forse perché eccessivamente soddisfatta di sé e della reputazione di cui godeva. Non si accorge però di cosa le sta capitando attorno. Alcuni puttini le stanno rubando i simboli che la rappresentano (trombe, scudo e bandiera) e un satiro le sta tagliando le ali che le permettono di attraversare il tempo e gli spazi.
Ma la vicenda del termine fama non inizia col riuscito tentativo di “risemantizzazione”.
Fama etimologicamente vuol dire “ciò che si dice”, la voce pubblica, l’opinione comune. In considerazione, forse, del fatto che il male più che il bene trova spazio nella percezione mediatica, subito si affaccia sulla scena un approccio negativo alla parola. Tant’è che, fino alla fine del Settecento, “famoso” equivaleva a “famigerato” o “infamante”.
Ed è in questa direzione che va il modo in cui Virgilio – a differenza di Ovidio (Metamorfosi, XII, vv. 39-67) – descrive nell’Eneide la «sozza dea» Fama: «mostro orribile e grande, d’ali presta e veloce de’ piè […] vola di notte per l’oscure tenebre de la terra e del ciel senza riposo, stridendo sempre, e non chiude occhi mai» (IV, 282-284).
Insomma, non necessariamente la fama è garanzia di qualità.

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