Dialogo

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Non so quanto documentate siano le critiche rivolte a M. Buber, di aver proposto e parlato di un dialogo utopistico, non praticabile da coloro che sono immersi nella quotidianità. Sta di fatto che una lettura attenta delle opere del filosofo austriaco naturalizzato israeliano, grazie alla finezza delle sue analisi, ci consegna i frutti godibili della cosiddetta «svolta dialogica», che ha caratterizzato il XX secolo. La roccaforte filosofica, costruita da Cartesio e da Kant, viene scalfita e decisamente superata, riscattando il soggetto dal suo autoreferenziale isolamento, condensato nel famoso Cogito ergo sum.
La svolta dialogica fa leva sull’importanza della comunicazione, del linguaggio e dell’incontro con altri per giungere a una completa comprensione di sé e del proprio posto nella storia. Scambio di sguardi e integrazione consapevole di mondi e di emozioni sono i fili invisibili e concreti che contribuiscono a fare del dialogo il luogo in cui si costruisce positivamente e gradualmente l’identità personale.
Viene così dichiarato insufficiente il Cogito cartesiano e la pretesa centralità del singolo, a favore di quella che Hans-Georg Gadamer, filosofo del dialogo per eccellenza, chiama la «fusione di orizzonti». Nel rispetto della derivazione etimologica dal greco dia («in mezzo a») – logos (ragione, significato, discorso, parola) che, proprio per questo, fa del dialogo un esercizio difficile, ma unica via per colmare la distanza prodotta da competitività e ruoli performanti. L’efficacia del dialogo dipende dalla capacità di uscire da sé per incontrare l’altro. Non è semplice discussione dialettica, pur necessaria, ma dia-logos; parola che, come un diametro, attraversa uno spazio condiviso. Al suo interno non vale aspirare alla purezza o alla perfezione: è sufficiente cercare ciò che è possibile. Nel senso in cui l’intende Buber, quando scrive: «[…] una cosa sembra qualificare la consistenza minima dello stare in dialogo […]: la reciprocità dell’azione interiore […], il fatto di rivolgersi l’uno verso l’altro».
Nel dialogo, tenere in considerazione l’altro, irriducibile allo sguardo e al gesto, significa prestare somma attenzione alla parola che si fa «tramite» del mondo a cui appartiene. Segno di rispetto e di vicinanza alla differenza della persona che ci sta di fronte nella sua lingua. Quella che trasmette il desiderio di amicizia anche verso membri di altri popoli con cui si è in guerra, o non si è ancora fatta la pace. Come ci raccontano i giovani ex nemici che convivono per un biennio nel borgo di Rondine (Arezzo), accolti dalla Cittadella della Pace.

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