Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Per cogliere il senso pieno della parola devozione bisogna, senza escluderlo, andare oltre l’ambito religioso nel quale viene per lo più confinata. Si può nutrire devozione verso un santo o la Madonna. Ma si può essere devoti anche di una persona alla quale si riconosce un valore particolare, di un ideale o di una istituzione ritenuta particolarmente significativa per la propria o per la vita della collettività.
Nell’antica Roma, esistevano formule rituali della devotio pronunziate dal comandante militare. Con esse, questi votava la propria vita alla divinità per la sua terra di appartenenza. È famosa la formula rituale pronunziata da Publio Decio Mure prima della battaglia del Sentino (295 a.C.), riportata da Tito Livio (Ab Urbe condita (VIII, 9,4).
Sempre, comunque, il termine devozione esprime sentimenti di speciale venerazione, che coinvolge interamente e in maniera profonda la persona. Ce lo dice anche il primo dei due elementi (de) che compongono il verbo latino de-vovere (part. pas., de-votum), dal quale deriva la parola devozione. Il prefisso de, oltre a “giù, fuori”, significa anche “giù fino in fondo” e quindi “completamente”. La parola votum, dalla radice indoeuropea *wegwh, rimanda all’atto del “promettere solennemente, impegnare, dedicare, giurare”.
A ben guardare, alla base di ogni atto di devozione vi sono degli elementi imprescindibili. Devota è la persona che coltiva in maniera consapevole il senso dei propri limiti; e, nello stesso tempo, il bisogno di riconoscenza e di gratitudine nei confronti di chi o di cosa contribuisce a colmarli. Fino a generare legame di fedeltà, disciplina e impegno.
Solo chi interiorizza questi atteggiamenti allontana i rischi che possono accompagnarsi alla devozione. Il più evidente è il rischio di accontentarsi dei segni della devozione che, pur rimandando a qualche aspetto del sacro, non richiedono però impegno personale e atteggiamenti conseguenti.
Da qui, il passo verso la strumentalizzazione della devozione è davvero breve. Soprattutto quando i segni della devozione li si trasforma in simboli identitari.
È quello che avviene, ad esempio, quando è il Crocifisso a essere ridotto a simbolo identitario, trascurando tutta la ricchezza del messaggio che esso porta con sé. Così capita di imbattersi in persone schierate nella strenua difesa della presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici. Le stesse però che con la stessa forza rifiutano quel Crocifisso che, in virtù del suo più autentico messaggio, diventa volto, storia e presenza, viva e implorante accoglienza. È un esempio evidente della insopportabile strumentalizzazione di un segno eminente, anche di devozione.