Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Due riferimenti. Lontani nel tempo, e appartenenti a modalità espressive poco assimilabili tra loro, per non confondere la consolazione con vere e proprie derive di essa. Forme false o addirittura moleste. Fatte di parole e gesti che tendono ad anestetizzare il dolore. Invitando semmai chi soffre a guardare chi sta peggio. Come se esistesse una gerarchia del dolore.
Il primo riferimento è alle parole (Consolatio ad Helviam Matrem) con le quali Lucio Anneo Seneca consola la madre, affranta per l’ingiusto destino che s’è abbattuto su di lui, suo figlio. Per il suo impegno a favore di una umanità condannata a una vita indegna, Seneca era in esilio e, subito dopo, verrà spinto al suicidio da Nerone. Le parole di consolazione a Elvia maturano nel mezzo di una esperienza di sconfitta, senza vie di uscita. Una consolazione a caro prezzo, insomma.
E poi, Edvard Munch. Nei dipinti dedicati alla Consolazione, esplora l’animo di chi consola e le emozioni di chi, questa consolazione, l’accoglie. L’uso dei colori e la postura dei protagonisti trasmettono in maniera straordinaria la continua ricerca che porta il pittore norvegese a catturare la complessità dell’animo umano. Soprattutto quando si vivono esperienze di grande e sofferta intensità. Per sopire le quali, non basta la vicinanza fisica, come aveva già scritto Boezio nel suo De consolatione philosophiae.
In forza della sua composizione (prefisso con e solus) – consolazione significa sostanzialmente “stare con uno che è solo”, condividendone la condizione.
Nel Nuovo Testamento, il termine greco παράκλησις (paraklesis) è quello che meglio racchiude il significato della parola consolazione. È il termine cui fa ricorso soprattutto san Paolo. Oltre a significare “supplica”, “invocazione”, parakleis vuol dire soprattutto “esortazione” e “consolazione”. Una consolare quindi che è anche incitamento a recuperare energie e incoraggiamento a ritrovare vitalità e protagonismo.
Nel Vangelo di san Giovanni, lo Spirito è detto “Paraclito”, cioè “chiamato accanto” per difendere e consolare.
Sul piano relazionale, la consolazione è un’arte. Arte del cuore e dell’intelligenza, che cresce e porta frutto solo in un clima di sapiente e reciproco ascolto. Senza voler essere a tutti i costi ricerca di una soluzione alla sofferenza e allo smarrimento. Il più delle volte, essa si esprime come consapevole condivisione della impotenza a cambiare le cause del dolore e dello smarrimento. Non sempre e non a tutto c’è una spiegazione a portata di mano.
Quando manca questo esercizio di umiltà, proliferano parole ipocrite, retoriche o eccessivamente sentimentali, che nulla hanno a che fare con la paraklesis.