Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Per indicare la corrispondenza tra il nome di una persona e la sua vicenda o il suo destino, gli antichi latini ricorrevano alla formula: nomen omen; espressione che può essere resa con «il nome è un presagio». Fanno così, tra gli altri, Plauto (Persa, 625) e Cicerone (In Verrem actio secunda, 2, 6, 18).
Nonostante la fortuna toccata a questa espressione a causa del facile gioco paronomastico, Ovidio ritiene più corretto che venga dato il nome a una persona partendo dalla realtà dei fatti e dalla sua vicenda esistenziale. «Ex re nomen habet», scriveva di Dipsas (letteralmente, «assetata») – una vecchia ubriacona (Amores 1, 8, 2s) – per sottolineare che erano i suoi comportamenti ad averle guadagnato quel nome.
Ho introdotto il termine clandestino con questo rimando classico perché è uno dei casi in cui la parola ha il potere di connotare (nomen omen) in maniera errata e superficiale un’esperienza umana, saltando a piè pari la più corretta scelta di Ovidio, per il quale il nome deve rispecchiare la realtà. La parola clandestino, presente già nel XVI secolo, era originariamente un aggettivo con il significato di «fatto di nascosto», in forza dell’avverbio latino clam. Dal Novecento la parola clandestino viene sempre più usata come sostantivo.
Pur rimandando a «ciò che esiste di nascosto», il tratto semantico iniziale della parola clandestino ha subito uno scivolamento linguisticamente infondato, accentuato dal ruolo centrale riservatole in materia di migrazione nel discorso pubblico occidentale. Eppure, per conservare il giusto significato alla parola clandestino e per non cadere vittime della speculazione politica, basterebbe un po’ di gusto informato per la nostra lingua, maltrattata anche da alcuni mezzi di comunicazione che, per superficialità o per complicità, favoriscono una pericolosa interscambiabilità tra condizione e comporta-mento personali.
Trovarsi nella condizione di clandestinità, cioè non in regola con i documenti di permanenza in un luogo, non coincide con l’essere criminale. Si arriva all’assurdo di leggere del naufragio di 368 «clandestini», il 3 ottobre 2013, mentre si sta parlando di persone che non hanno nemmeno messo piede sulla terra desiderata. Non so quanto di clandestino (nascosto) vi sia in chi senza nascondersi arriva sulle nostre coste, lavora alla luce del (e sotto il) sole nei nostri campi, visti da agenti di polizia, volontari e cronisti.
Mentre mi sembra davvero nascosto, cioè clandestino, il tanto denaro sottratto al fisco, occultato nei falsi in bilancio o elargito come retribuzione in nero, in cambio di una prestazione d’opera. Aveva ragione il poeta “clandestino” Ovidio: ex re nomen habet.