Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Classificare senza accusare! Scriverei così dopo aver seguito l’evoluzione semantica della parola categoria, dell’attributo (categorico) e dell’avverbio (categoricamente). Nell’antica prassi dibattimentale, in sede di amministrazione della giustizia, kategorèia era l’affermazione decisa contro qualcuno. Era l’accusa. Parlare invece in difesa di se stessi o di qualcuno, in quel contesto, era apologhèia. Famosa è l’Apologia di Socrate.
L’etimologia della parola categoria rimanda al greco antico κατηγορέω – composto da katà (contro) e agoreuo (esprimo, dico) – col significato di affermare in maniera decisa, accusare. In filosofia, il termine categoria si riferisce a tavole di classificazione della realtà e viene associato anche a precisi criteri di divisione, tassonomia, tipologia. Almeno fino a Kant, la filosofia non ha operato nessuno stravolgimento semantico nell’uso della parola categoria. L’ha sempre intesa con la funzione di mettere in chiaro, mostrare, definire. Senza farlo però contro qualcuno, e quindi senza accusare, come avveniva nel dibattimento forense.
Lo scopo era piuttosto quello di organizzare la realtà, per sua natura molteplice. A livello personale, ad esempio, è importante classificare – disporre secondo categorie e quindi tenere distinti senza separarli – emozioni, pensieri, progetti, azioni. A livello socio-politico, ha senso identificare categorie di persone, professioni, attività e interventi perché non vi siano indebite commistioni o dannose confusioni. Aristotele, d’altra parte, aveva scritto che è proprio del sapiente ordinare, cioè classificare le cose secondo categorie (Metaphisica, I, 2, 982 a).
Lo slittamento semantico al quale oggi assistiamo, soprattutto nell’uso dell’attributo (categorico) e dell’avverbio (categoricamente) è dovuto al cortocircuito con la lettura di Kant, accusato di essersi chiuso in un soggettivismo senza vie di uscita. Un’affermazione categorica, per il filosofo tedesco, equivale al «tu devi» incondizionato; e categorico è qualcosa di pienamente definito in sé, che non lascia spazio alla fecondità, chiudendo la strada a qualsiasi novità, personale o comunitaria.
La fecondità e la sorpresa di cui invece tutti abbiamo bisogno esigono che l’attributo «categorico» e l’avverbio «categoricamente» trovino poco spazio nel nostro vocabolario e vengano usati solo… dietro prescrizione medica. La vera fecondità appartiene infatti solo a chi non rinunzia alla complessità del reale. Ne accetta le sfide e vede la complessità come l’unico vero giardino nel quale è possibile coltivare pensieri alti, intense emozioni e relazioni autentiche.