Capriccio

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Tra le produzioni artistiche che possono introdurci nel complesso campo semantico del termine capriccio, scelgo l’ascolto del Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo di J.S. Bach e uno sguardo al Capriccio con Chiesa e laguna, del Canaletto. Con linguaggi diversi, entrambe le opere liberano la parola capriccio dal riferimento al pianto del bambino che tenta di portarsi dalla sua papà, mamma o nonni. Le stesse opere liquidano anche l’identificazione del capriccio con l’amore fugace ed occasionale o con qualche desiderio leggero e fantasioso.
Se si esaurissero in questo il significato e la storia della parola capriccio, sarebbe del tutto giustificata la tendenza a trattare con sufficienza una parola che, sin dalla sua prima comparsa nella lingua italiana, presenta una evidente e riconosciuta complessità. A cominciare dalla constatazione che non vi è un derivante etimologico della parola capriccio, né in greco né in latino. L’unico calco semantico che offre il panorama linguistico latino lo si trova nella parola horror, come testimonia la traduzione di B. Giamboni che, nel 1292, così rende il par. 18 (lib.V) delle Historiae adversum Paganos di P. Orosio («avide ac sine horrore»): «con desiderio e sanza disprezzo, ovvero capriccio».
La discussa vicenda etimologica e la stratificazione linguistica della parola capriccio sembrano percorrere comunque due strade. La prima fa leva sulla convinzione che la parola capriccio sia una contrazione della più antica «caporiccio» (composta da capo più riccio); con rimando semantico al capo con capelli arricciati a causa di uno spavento. Allo spavento e alla repulsione dovuti a un cattivo ricordo si riferisce anche Dante quando, nel canto XXII dell’Inferno, scrive: «I’ vidi e anco il cor me n’arriccia».
La seconda direzione intrapresa dalla vicenda etimologica della parola capriccio porta al coinvolgimento della capra e del suo modo di comportarsi. Ecco come F. Alunno definisce il capriccio: «un appetito subito et senza rasone, tale, qual pare che venga alle capre». Circa trecento anni dopo, il lessicografo A. Panzini consacra questa intuizione di Alunno, inserendola nel percorso semantico della parola capriccio che, esportata nelle arti, si è definitivamente liberata dall’accezione negativa che l’accompagna nell’ambito delle relazioni.
Nella musica, nell’arte e nella poesia, la parola capriccio dice ormai riferimento a libertà da schemi stratificati per aprirsi a un’area nella quale trovano spazio il gusto per il fantastico e l’imprevisto che, grazie alla prolificità di grandi geni, è divenuto un vero e proprio genere artistico.

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