Apparenza

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

L’era social ha certamente conferito all’apparenza un alto livello di spettacolarità, fino a essere considerata, nelle sue forme più patologiche, l’unica realtà che conta e quella sulla quale, nella propria mediocre esistenza, vale la pena investire. Lo ha fatto tanto da ritardare, e talvolta impedire, un corretto approccio a una parola e a un tema che ha tenuto impegnato il mondo della cultura, dalla filosofia alla letteratura, dalla sociologia all’etica.
Pur ammettendo un eccesso di semplificazione, si può dire che intorno all’apparenza si sono sviluppate due concezioni: l’apparenza intesa in contrapposizione alla verità e l’apparenza vista come inizio di un qualsiasi processo conoscitivo. Intorno al primo approccio, sostanzialmente negativo, si ritrova gran parte della filosofia antica e parte della tradizione romantica. Quest’ultima, in particolare, colloca il tema dell’apparenza all’interno della dialettica maschera-autenticità, favorendo lo scivolamento dell’apparire nel mondo dell’inganno e del negativo; confermato dal Rousseau del Discorso sulle scienze e sulle arti. Il filosofo e musicista svizzero suggerisce l’esercizio del rientro in se stessi e allo stato naturale per evitare la corruzione e la decadenza cui porta il culto dell’esteriorità. Un invito a sottrarsi all’overdose della società dell’apparenza che, in forma diversa, trova spazio nella letteratura. In particolare in Shakespeare e in Pirandello. Del primo ricordiamo il famoso soliloquio del malinconico Jacques: «Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne solamente degli attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Ognuno nella sua vita recita molte parti, e i suoi atti sono sette età» (Come vi piace).
La sorprendente affermazione posta da O. Wilde sulle labbra di Lord Henry Wotton restituisce all’apparenza la sua dignità: «Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze – dice il cinico artista al giovane Dorian Gray –: il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile” (Il ritratto di Dorian Gray). Un modo per dirci che le apparenze contano nello spazio pubblico e nella comunicazione. È la prima cosa che sappiamo degli altri ed è la prima cosa che diciamo di noi agli altri.
Il problema sorge quando di noi s’impadronisce il complesso di Erostrato: quell’ansia patologica di sopravvivere nella memoria dei posteri o di eccellere a tutti i costi, che va oltre il legittimo bisogno di riconoscimento. Allora ci si dimentica di chi siamo realmente, si perde il contatto con le aspirazioni più intime della vita, quelle che ci rendono unici; e che sono capaci di tenerci al riparo dalla vanità da social.

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