Abitudine

 Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Oltre a derivare dal latino habitudo – da habĭtus (modo d’essere, contegno, aspetto) e dal verbo habere (avere in sé) – la parola abitudine è legata semanticamente al greco ἕξις (attitudine) e ἔϑος (abitudine, costume). Nell’Etica nicomachea (Libro II), Aristotele utilizza entrambi i termini per affermare che si diventa giusti, temperanti o coraggiosi attraverso l’abitudine. Si è virtuosi cioè non per natura ma attraverso la ripetizione di azioni giuste, temperanti o coraggiose. Nella Retorica (I, 11, 1370a 7), lo stesso Aristotele stabilisce una sorta di analogia tra l’abitudine e i meccanismi naturali.
In entrambi i casi, secondo lo Stagirita, si tratta di ripetizione piuttosto uniforme di gesti e comportamenti che, assieme alla fatica, tende a ridurre anche il livello di consapevolezza. Questa particolare condizione creata dall’abitudine è chiamata, da qualcuno, competenza inconsapevole. Essa, mentre facilita operazioni di carattere psicofisico e sociale, porta con sé un limite: tende a ridurre la creatività, la flessibilità mentale e la curiosità. È questo che ha sollecitato una serie di considerazioni tutt’altro che benevoli nei confronti dell’abitudine.
Per Montaigne, ad esempio, l’abitudine è una maestra prepotente e sorniona, che nasconde il vero aspetto delle cose, proprio perché allenta il livello di consapevolezza. Più esplicite sono le riserve espresse da Rousseau e da Kant, i quali sottolineano il carattere negativo dell’abitudine, pronta ad ostacolare, se non a sopprimere del tutto, la libera iniziativa e la spontaneità dello spirito. Non la pensava così Cicerone. L’oratore e filosofo riconosce all’abitudine una grande forza. Soprattutto quando si riesce a far convivere nella propria vita due esigenze tra loro diverse, se non opposte: il bisogno di sicurezza, in quanto esseri fragili e precari, e il desiderio di novità. Quando in noi questo equilibrio fatica ad esistere o addirittura si spezza, l’insieme delle nostre abitudini racconta molto della nostra storia, rappresentata dal rigido mondo delle sicurezze; una prigione che tiene intrappolato quanto di più nobile c’è in noi. Il mondo di queste abitudini, consolidandosi, può provocare la sclerosi del desiderio di migliorarsi e contribuisce ad abbassare la soglia del nostro senso critico.
Oltre alla filosofia, sono numerose le discipline interessate alla natura e alle articolate dinamiche dell’abitudine. Si va dalla biologia alla psicologia, dalla sociologia all’antropologia. Tutte mettono in guardia dalla “dittatura” delle abitudini, soprattutto quando queste allargano il loro influsso negativo al piano intellettuale e spirituale. Consegnarsi infatti agli automatismi dell’abitudine vuol dire, tra l’altro, chiudersi al mondo delle emozioni ed esporsi alla insensibilità e alla perdita dell’empatia che, per poter esistere e informare di sé la vita, le scelte e le relazioni, esigono disponibilità all’ascolto e apertura costante al nuovo.

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