Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Parola che, come poche altre, è stata costantemente al centro dell’attenzione, nei diversi ambiti del sapere. E, proprio per questo, è difficile darne una definizione che comprenda tutte le attribuzioni, e che faccia accettare, senza contestarli, alcuni modi di intenderla.
A cominciare dalle conseguenze che possono accompagnare l’etimologia che Cicerone attribuisce alla parola virtù: «è da vir che deriva la virtus. E, propria del vir, è soprattutto la fortezza, che ha due doveri fondamentali: disprezzare la morte e il dolore» (Tusculanae Disputationes, II, XVIII, 43). In forza della derivazione da vir, la virtus sembra, qui, attribuire esclusivamente all’homo le virtù della potenza e della forza (vis).
Negli ultimi due libri delle Tusculanae, per il politico, oratore e filosofo romano la vera forza della virtù sta nell’equilibrio e nell’armonia dell’anima. Indispensabili perché l’uomo possa mantenere coerenza nelle opinioni e stabilità nell’azione in vista del bene pubblico. Evitando passioni e paure. Quand’è così, il latino virtus traduce il greco δύναμις (dynamis/forza, potenza).
Un arricchimento semantico alla parola virtù è quello apportato da Aristotele (Fisica, VII 3, 246a, 13 ss.), più volte esplicitato da Dante: «Ciascuna [cosa] è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua virtude propria» (Convivio (IV, XVI 7). Qui la “virtude propria” designa le potenzialità insite in qualsiasi realtà, e le capacità operative appartenenti a ogni persona.
Un passaggio importante, nel modo d’intendere la virtù, si registra nel periodo umanistico-rinascimentale. La recuperata dignitas hominis e la sua centralità danno avvio alla concezione moderna delle virtù. Lungi dall’essere semplici convinzioni razionali sul retto modo di agire, queste sono intese come criteri che regolano i desideri, i sentimenti e le azioni dei singoli e delle comunità. In vista di ciò che è ritenuto un bene per sé e/o per gli altri.
Le virtù sono quindi disposizioni stabili che la persona acquisisce gradualmente e interessano la sua dimensione razionale e affettiva. Fino a essere vissute e percepite in maniera normativa.
La parola virtù – o parole a essa riconducibili – compare raramente nella Sacra Scrittura. La lingua ebraica, infatti, ricorre molto poco a concetti astratti. Più che della/e virtù, si parla di uomini e donne virtuosi. Di persone, cioè, che mettono in pratica la Parola di Dio e «camminano con Dio»: Enoc (Gen 5,22.24), Noè (Gen 6,9), Abramo (Gen 12,1-4; 17,1; 22, 1-3), la regina Ester. E, nel Nuovo Testamento, Giuseppe (Mt 1,19), Maria (Lc 1,38) e Gesù «il santo e il giusto» (At 3,14).