Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
«E’ così ingiusta l’anima senza radici: / rifiuta la bellezza che le offrono, / cerca il suo disgraziato territorio / e solo in esso il martirio e la pace». Così P. Neruda, in Memoriale di Isla Negra (1964), descrive l’intima sofferenza di chi è costretto a vivere in esilio. Parola derivata da ex (fuori) solum (terra) o, secondo altri, dal verbo latino exsilire (saltare fuori).
Anzitutto la fatica a riconoscere e accogliere la luce della bellezza, che pure esiste dove si è approdato. Il non darsi pace, che diventa ricerca insonne della propria terra, per quanto disgraziata essa possa sembrare. L’esilio, insomma, come una crepa difficilmente ricomponibile tra l’animo umano e le sue radici.
Quella di Neruda è una visione dell’esilio attenta al dramma che si consuma nella vita dell’esule. Con difficoltà essa si integra col valore redentivo che viene invece riconosciuto, nell’ambiente biblico, alla pur dolorosa esperienza dell’esilio. Senza negare la valenza negativa, nella Scrittura le condizioni estreme nelle quali è costretto a vivere Israele durante l’esilio babilonese diventano vie attraverso le quali Jhwh riporta il suo popolo sulla strada della fedeltà all’Alleanza.
Sin dall’età arcaica l’esilio è una delle più affilate armi di lotta politica. Per quanto nelle legislazioni moderne non si commini più la pena dell’esilio, non sono affatto scomparse modalità, in certi casi, non meno violente per sbarazzarsi di chi dà fastidio o, con la sua presenza, tenta di impedire l’esercizio del potere al di fuori di ogni regola.
Nella letteratura e nell’arte – soprattutto in quelle che hanno incrociato storie di esiliati – è sempre presente il sapore amaro delle giornate di chi è costretto a vivere fuori dalla propria terra. Si tratta, per lo più, di pagine o immagini che rappresentano un approdo consolatorio o uno strumento per mantenere vive relazioni interrotte. Come nel De exilio di Plutarco e, ancor più, in Foscolo: «Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio…».
Sono sempre, comunque, parole e immagini dense, di nostalgia e nello stesso tempo di speranza. Talvolta anche di rabbia. Soprattutto quando, dopo la fatica del viaggio, si approda in luoghi e tra persone inospitali, e si vive in preda alla paura e all’incertezza.
Sono i momenti in cui l’esperienza dell’esilio assomiglia tanto a quella dell’esodo del popolo di Israele e alle tentazioni cui questo andò incontro. Come quella di rifugiarsi in posizioni o idee ritenute tanto confortanti da trasformarle in idoli. Sempre pericolosi quando manca uno sguardo di luce o una prospettiva di risurrezione.