Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Nell’evoluzione dal latino all’italiano il valore positivo della parola ōtium si è perso. Quasi del tutto. Il nostro tempo – caratterizzato dal frenetico attivismo e dal produrre per accumulare, spesso senza sapere nemmeno con quale ragionevole scopo farlo! – ha certamente accelerato il declino semantico di questa parola. Allontanando il significato che esso aveva per i Romani e per i Greci.
Nella tarda Repubblica – pur senza sostituirsi al negotium, inteso come attività pubblica, e grazie all’affermarsi dell’epicureismo – crebbe la considerazione per l’otium honestum (Cicerone) e per l’otium litteratum (Catone e Plinio). Entrambi comprendevano l’ampio ventaglio di interessi che contribuiscono alla cultura animi. Una crescita dell’animo difficile da coltivare se si è impegnati negli affari pubblici, negli interessi commerciali e nell’azione politica; insomma, nei negotia che già nella etimologia – neg-neque (no) e ōtium – escludono la disponibilità di tempo libero (ōtium).
Sono davvero tante le testimonianze che possono contribuire, ancora oggi, a liberare la parola ozio dall’aura negativa che la caratterizza nella nostra lingua. Testimonianze che, a seconda dei contesti, arrivano a farne un atto quasi sovversivo o un dono del cielo. Tale doveva essere infatti la convinzione del virgiliano pastore Titiro se, all’amico Melibeo che si meraviglia, quasi scandalizzato, nel vederlo steso all’ombra a suonare la bucina, risponde: «O Meliboee, deus nobis haec otia fecit (O Melibeo, quest’ozio è dono di un dio)» (Egloga I, 6).
I Greci, d’altronde, rendevano “ozio” con la parola σχολή (scholḗ), che etimologicamente vuol dire tempo libero, riposo, quiete. Non un fine in sé però, ma tempo da dedicare allo studio e alla conoscenza. Anche di sé stessi. Attività resa dai Greci col verbo θεωρεῖν (theorein), che non ha nulla di astratto. Anzi conserva, insieme, la forza dell’azione contemplativa e la lucidità di una presenza profetica. Tanto da far dire al filosofo francese E. Mounier che «il contemplativo, pur considerando sempre sua cura principale la ricerca e il perfezionamento dei valori, può anche mirare a un diretto ed energico intervento nella vita pratica […] Affermerà, per esempio, l’Assoluto in tutta la sua drastica rigorosità, con la parola, con lo scritto e con il gesto, quando il significato ne sia stato travisato in accomodanti compromessi» (Il personalismo, cap. VII).
È per tutto questo che Seneca ha potuto vedere nell’ōtium, paradossalmente, la forma più alta di negotium, affermando che «Qui nihil agere videntur, maiora agunt – Quanti sembrano non far nulla, in verità si occupano delle cose che contano» (Lettera 8,6).