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Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

E se – guardando ai giorni che supponiamo di avere davanti a noi – oltre a pensare a ciò di cui vorremmo riempirli, pensassimo anche a ciò che vorremmo evitare nel tempo che si apre dinanzi a noi?
È facile, in certi momenti, sentirsi chiedere: Cosa farai di bello e di nuovo nei giorni che verranno? Inusuale è invece sentirsi dire: Cosa eviteresti di fare?
Rispondere a questa seconda domanda è molto più esigente. Non richiede soltanto una messa a punto delle proprie attese e delle visioni che si coltivano. Richiede la capacità di guardare con realismo a ciò che si è e a come ci si è andato costruendo, scegliendo giorno per giorno.
Vivere è scegliere (exelĭgĕre). A comporre questo termine latino concorrono la preposizione ex (da) e il verbo elĭgĕre (preferire, selezionare). Sicché, ogni scelta è comunque una rinuncia a qualcosa per adottarne un’altra.
Se fatta in maniera autentica, la scelta è sempre un atto di libertà e di responsabilità. Dante non esita a collocare quelli che rinunziano a operare delle scelte, gli ignavi, nell’antinferno: hanno sprecato l’occasione per capire chi sono e, soprattutto, hanno rinunziato a essere protagonisti nella costruzione della loro vita.
Più drammatico è l’atteggiamento col quale S. Kierkegaard affronta il tema della scelta. Per il filosofo danese l’uomo diventa ciò che è in conseguenza delle sue scelte, che provocano angoscia profonda nell’uomo che si dibatte, per lo più, tra opposte (aut-aut) possibilità e infiniti “forse”.
La scelta allora obbliga a mettere da parte le astrazioni per farci approdare a qualcosa che abbia un senso, per noi comprensibile. E perché no? Che abbia utilità oltre che sensatezza. Senza comunque ridurci a essere la banale trama delle nostre infinite esperienze o la somma delle nostre scelte. Le scelte che siamo chiamati a fare e quelle per le quali di fatto optiamo contribuiscono in maniera decisiva ma non esclusiva a formare il nostro «io, polvere e cenere… nome e cognome» (F. Rosenzweig, La stella della redenzione); cioè la nostra unicità. Quella che non smetteremo mai di costruire all’interno di condizioni aperte e che impedisce a chiunque, anche a noi stessi, di de-finirci in maniera irreversibile. È la sfida esaltante, ma anche tanto faticosa che veniamo chiamati ad affrontare nei giorni che ci è dato di vivere. Disposti anche a ribaltare orientamenti presi o relazioni intessute.
È segno di fragilità, questa? Sì! È la stessa fragilità del pane che, solo quando è fresco e croccante, ha gusto e può essere facilmente spezzato per essere condiviso. Senza troppi sforzi.
Accettare la sfida delle scelte ci fa pane fragrante e gustoso. Per noi e per altri.

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