Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Siamo immersi in un gioco complesso. Fatto di relazioni stabili e rapporti effimeri, slanci verso l’assoluto e attrazione per ciò che è relativo. In più, le tante forme esplicite o mascherate di assolutismo, sempre pronte a proporsi come correttivo di derive individualistiche o relativistiche, contribuiscono a far crescere ogni forma di sospetto intorno alla parola “assoluto”. Derivata dal termine latino ab-solutus, col significato di “sciolto da”, indipendente, autonomo, incondizionato. Mai però in opposizione radicale al sistema di relazioni, tipica di ogni esistenza.
Parafrasando il Pasternàk del Dottor Živago, si può dire che una sola idea di assoluto è accettabile: quella che include in sé la mia vita. Lo aveva anticipato Ungaretti nella poesia Risvegli (1916). Qui il poeta, che ritiene vitale la tensione verso l’assoluto per una vita personale vissuta in maniera autentica, non vede altra strada per accostarvisi se non quella che parte dalla finitezza umana. È, percorrendola e quasi assaporando la propria precarietà, che a ogni persona è dato di uscire da sé stessa e proiettarsi verso un altrove che nutre la voglia di vivere. Com’è l’assoluto, capace di alimentare uno sguardo creativo sulla vita e di farne ascoltare le voci, fino a suggerire di abbandonarsi a essa riconoscenti.
È questa l’idea di assoluto che va coltivata. Un assoluto che non porta a chiudersi in una sorta di autoinganno e che, grazie al suo dinamismo, contribuisce a saldare aspirazioni alte e realtà concrete, il cielo e la terra, il sole e il fango, lo sguardo lungo e le mortificanti miopie che caratterizzano la nostra quotidianità.
Potente per ciò che evoca, a questo proposito, è il simbolo della Scala di Giacobbe (Gen 28,13-15). Nel sogno del patriarca biblico, la scala poggiata saldamente sulla terra conduce alla porta del cielo e alla “casa di Dio”. All’Assoluto. La forza del racconto risulterebbe incompleto senza l’ultima grande scena della vicenda, quella della lotta (Gen 32, 23-33). Quasi gustando la bellezza del sogno che gli ha fatto intravedere l’Assoluto, Giacobbe si mette sulla via del ritorno e vive altre vicende. Ma, mentre sta per varcare il fiume Jabbok, gli si para dinanzi un personaggio misterioso, che si rivelerà essere YHWH. Con lui ingaggia una lotta. La scena si svolge nell’oscurità e Giacobbe perde tutti i suoi punti fermi.
La lotta lascia un segno indelebile in Giacobbe: è colpito al femore, una delle parti più delicate del fisico. Quasi a dirci che chi accetta di incamminarsi verso l’Assoluto, fino a incontrarlo e compiere un percorso di purificazione, è chiamato a portare i segni visibili dell’avvenuto incontro.