Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
È sempre più frequente assistere a vere e proprie fiere della parola; a emissione di suoni che non trasmettono passione per un ideale, partecipata sofferenza per una disgrazia o gioia condivisa per un traguardo raggiunto.
Sembra proprio che il parlare sia sempre più destinato a perdere il suo ruolo di luogo in cui la propria parte più intima possa venir messa con fiducia nelle mani e nel cuore della persona scelta come interlocutrice. Eppure il parlare, attraverso accentuazioni e inflessioni diverse, riveste un’importanza decisiva quando due persone si trovano una di fronte all’altra. Pur nelle circostanze e nelle situazioni più diverse. Non sono le circostanze a dare valore al parlare. Lo è invece ciò che si intende comunicare e come ciò viene fatto.
Il parlare vero e generativo non esclude mai dal dialogo i soggetti del parlare. Ciò che di bello e gratificante ciascuno degli interlocutori va sperimentando, ma anche ciò che di faticoso può segnare le proprie giornate. Il parlare autentico non esclude mai, senza scadere in eccessivi racconti autobiografici, quanto di più intimo colora di sé la vita delle persone. Emozioni che riscaldano e sconfitte che paralizzano; speranze che rinascono e delusioni che allontanano.
In una successione più logica che cronologica, prima di parlare di, bisognerebbe aver parlato a.
Un esempio limite, nel senso positivo della parola, è rappresentato dal parlare di Dio. Farlo, da parte di chi ha poco o per niente parlato con Lui, appare subito un parlare interessato, penoso, opaco, non coinvolgente. Mancante di quella robustesse intellectuelle, che Henri Bergson diceva di ritrovare nel parlare dei mistici cristiani. Quando parlano di Dio, questi sembrano liberati da sé stessi, dall’ossessivo ripiegamento su sé stessi e sui propri bisogni immediati. Premessa indispensabile, questa, per poter percepire la presenza dell’Altro come dono per sé. Percezione che stenta a farsi viva in chi, nel parlare, fa fatica a distaccarsi da sé e dai propri interessi, per affacciarsi con discrezione sul mondo felice o faticoso dell’interlocutore. Solo così, parlare con l’altro e dell’altro è luogo in cui le parole possono anche lasciare il posto al silenzio. Su Dio o su un qualsiasi interlocutore che mi sta di fronte. Non è silenzio negativo, questo. Non è semplice ‘non parlare’. È silenzio fecondo, che esprime la meraviglia di trovarsi di fronte a ciò che non si conosceva e stupore nel percepirne la ricchezza. Novità e ricchezza che non si intende perdere, ma farle piuttosto diventare energia viva per sentirsi rimessi in cammino. Non più in solitudine e nell’incertezza.