Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Conversione. Parola che riferiamo per lo più a un fenomeno di natura religiosa o morale. Eppure è un termine che s’incontra anche in riferimento, ad esempio, a significativi cambi di abitudine negli stili di vita e nei mutamenti di idee; può riguardare altresì file informatici o la trasformazione dell’energia elettrica. In ognuna di queste circostanze, comunque, la parola conversione conserva il significato che le deriva dal latino con-vertere, nel senso di cambiare direzione, volgere; ma anche trasformare.
È singolare che nei Profeti non s’incontri mai il sostantivo astratto teshuvah (conversione), come avverrà invece nella letteratura rabbinica. I profeti sono molto realisti: suggeriscono atti concreti di «ritorno» a uno stile di vita completamente nuovo, come esige la radice shuv, che vuol dire sia convertirsi sia ripartire. In entrambi i casi, si tratta di una vicenda intima nella quale entra in gioco la consapevolezza in presenza di una nuova possibilità. Non per guardare e tornare indietro, ma per disegnare un futuro diverso, frutto del dinamismo interiore di cui parla il teologo J. Moltmann nel suo libro Umkehr zur Zukunft (Conversione al futuro).
In quanto esperienza fondamentale della persona, la conversione può prendere avvio solo in presenza di un forte desiderio di andare oltre quello che si è, per proiettarsi verso ciò che si desidera essere o ci si sente chiamati a essere. L’atto di convertirsi contribuisce così in maniera rilevante alla formazione della propria identità, liberandola da una concezione statica e chiusa e orientandola alla alterità, in tutti i sensi.
La conversione smetterà di generare permanenti e profonde frustrazioni solo se non verrà ridotta a un evento. Essa è un processo, che chiede di svilupparsi lontano da schemi moralistici o volontaristici. Mal sopporta l’istituzionalizzazione di gesti e parole che pretendono di decidere tempi, livello e qualità del processo di conversione.
Indicazioni, in questa direzione, possono venirci dal modo in cui concepisce la conversione la filosofia greca, soprattutto nel passaggio a essa impresso da Socrate e Platone. Con loro la filosofia assume un volto pedagogico di carattere quasi religioso. Sicché la conversione (epistrophē) è ritorno dell’anima verso la sua sorgente. L’Aristotele del Protreptico accentua la simbiosi tra ragione e religione, facendo della conversione un esercizio di liberazione da tutto ciò che impedisce una vita di contemplazione. Siamo all’anticamera della cristiana metanoia, che domanda un cambiamento interiore radicale, come quello che mette in scena Caravaggio nella Vocazione di San Matteo.