Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Sembra, a volte, che l’uso comune di alcune parole le abbia gradualmente condannate ad allontanarsi dal loro significato etimologico o a subire improprie assimilazioni. Può dirsi questo pure della parola simpatia, che ha goduto di una continua attenzione anche in ambito filosofico. Qui la simpatia designa sia l’energia vitale che lega tra loro tutte le realtà sia la più specifica partecipazione emotiva di una persona allo stato d’animo di un’altra.
Riconosciamo, nel primo caso, la concezione stoica per la quale sympάtheia è l’armonia che lega, quasi campo magnetico, tutte le realtà presenti nel cosmo. La simpatia intesa invece come sorprendente complicità col sentire altrui trova casa già in Aristotele e, con sfumature talvolta abbastanza significative, attraversa gran parte della filosofia moderna fino a M. Scheler, passando per Th. Hobbes e D. Hume. È soprattutto quest’ultimo a ridimensionare l’antropologia egoistica e pessimistica di Hobbes, vedendo nella simpatia un potente fattore di superamento delle nostre passioni negative e di reale partecipazione a quelle degli altri. Senza scadere in una indiscriminata confusione di ruoli e di identità. La simpatia infatti non è sinonimo di contagio emotivo né di empatia. Essa va di pari passo con il rispetto della propria e della altrui identità. Tant’è che è ritenuto antipatico chi è invadente o chi tende a estendere in maniera fastidiosa il proprio ego. A differenza della persona simpatica che rassicura il mio mondo, l’antipatico è colui dal quale devo proteggerlo.
Ad analizzare l’etimo della parola simpatia si scopre che essa è il calco del greco συμπάϑεια, composta da σύν (con) e πάϑος (slancio e patimento insieme), ma, mentre per gli antichi retori rappresentava un mezzo di persuasione per coinvolgere e suscitare emozioni, ai poeti permetteva d’interpretare in maniera credibile, perché partecipe, i sentimenti dei loro personaggi. Ce lo confermano Aristotele (Retorica I, II, 1356A; Poetica XVII, 1455a), Cicerone (De oratore II, 43, 185) e Orazio (Ars poetica II, 102).
Le riflessioni successive ci hanno consegnato una parola e soprattutto una esperienza che induce a considerare la simpatia come una forza di attrazione che scatta nei confronti di qualcuno o di qualcosa, preludio di una valanga di emozioni e di decisioni che permettono di librarsi in territori sorprendenti. Come pure alla base della religione del Dio biblico c’è una forza attrattiva. Un «Dio simpatico», il quale non solo riconosce le emozioni umane, ma s’immerge nel mare dei nostri intensi sentimenti, sostenendo il percorso che ci spinge al largo e facendoci oltrepassare le strettoie delle singole esperienze.