Scala

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

Scala. Da subito, l’oggetto indicato da questa parola è stato caricato di valore simbolico. Il più frequente è l’aver visto nella scala la metafora della vita umana. Metafora dell’avvertita esigenza interiore di salire in alto e quella di sentirsi proiettati in avanti.
Si incontra questa lettura metaforica della scala nell’ebraismo e nei misteri mitraici, nel cristianesimo e nell’islam, nell’induismo, nello gnosticismo, fino alla massoneria. Non solo, ma in ognuno di questi ambiti religiosi e antropologico-culturali, diverse sono le prospettive e gli approcci al simbolismo della scala. Si registrano infatti letture di carattere storico, morale, filosofico, mistico. Tutte vanno comunque al di là del valore strumentale e scorgono nella scala il simbolo di un percorso che l’uomo è invitato a fare con umile consapevolezza, servendosi dello «scaleo eretto in suso», ma che ha anche «gradi [per] scender giuso» (Dante, Paradiso XXI, 29.31).
Il riferimento dantesco ai gradini che, dopo aver portato in alto, permettono di tornare a terra aiuta a sondare un primo aspetto presente nella dinamica della metafora esistenziale della scala: è l’invito a non considerare l’elevazione un beneficio esclusivamente personale. Dopo esser saliti, bisogna scendere per trasferire nella vita di ogni giorno il tesoro acquisito. «Contemplari et contemplata aliis tradere»: così raccomandava S. Tommaso ai suoi frati, al fine di fare esperienza di contemplazione – più biblicamente, comunione con Dio – e di condividere i frutti di questa ascesa.
Rimanendo sul piano simbolico, non può sfuggire un elemento comune a tutte le tradizioni religiose e antropologico-culturali: la scala che porta verso le altezze può realizzare il suo scopo solo a condizione che abbia la base poggiata ben salda sulla terra, sull’humus, da cui deriva l’aggettivo humilis. Chi sale deve mantenersi a contatto con la terra, con l’humus, dal quale traggono nutrimento le piante.
«Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Gen 28,12). Come quella apparsa al patriarca Giacobbe, nessuna scala, metafora di ogni ascesa nella vita, è costruita da mano d’uomo. Quasi a tener fermo il convincimento che, nonostante venga richiesta un’attiva partecipazione, non è iniziativa umana saldare il cielo con la terra e le attese con la realizzazione di esse. A ogni persona, poi, su questa scala, è come se fosse rivolto l’invito di farsi protagonista di un percorso dinamico di ascesa graduale, alla scoperta di ampi orizzonti.
Di tale gradualità, i dodici gradini della scala, presenti al cap. IV della Regola di San Benedetto, costituiscono un esempio per tutti coloro che – credenti, cercatori del Bene, dubbiosi sinceri – desiderano unificare il cuore, dal primo gradino del rientro in se stessi per dilatare il cuore, fino a compiere il bene non per paura ma per amore (ultimo gradino), passando per la pazienza nelle avversità (quarto) e la coscienza della propria imperfezione (sesto-settimo).

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