Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Forse perché investe i più disparati settori della vita e della società o forse perché la sua mancanza costringe ad assaporare frutti troppo amari, sta di fatto che la parola trasparenza viene sempre più invocata come rimedio magico per neutralizzare tutti i mali che affliggono la società contemporanea. L’ombra, poi, di ideali illuministico-razionalistici porta a guardare con sospetto chiunque, senza negarla, osi nutrire qualche dubbio su una trasparenza considerata alla stregua di un dogma primario; una sorta di panacea assoluta, principio incondizionato per la vita del singolo e della comunità.
Per la sua complessità, la parola trasparenza va trattata con cura e attenzione, a cominciare dalla etimologia. Trasparenza deriva dal latino medievale transparens, che – composto da trans (attraverso) e parēre (apparire, mostrarsi) – è ciò/colui che consente di vedere, porta alla luce, mostra.
Come concetto, la parola trasparenza non nasce per esprimere un’esperienza di vita quotidiana, individuale o collettiva. Nasce invece come termine per indicare la proprietà fisico-chimica di alcuni corpi che lasciano passare la luce. Una felice? applicazione del concetto di trasparenza la si ritrova in architettura, dove le pareti di vetro sostituiscono i muri. Qui la trasparenza contribuisce a modificare i concetti di esterno ed interno, di pubblico e privato.
Il passaggio successivo è quello che ha fatto della trasparenza una qualità socio-politica, riconoscendole un carattere etico-comportamentale. Kant, nella Metafisica dei costumi, distingue il concetto di trasparenza da quello di verità. Dire tutto non vuol dire necessariamente dire il vero. Accanto al carattere positivo della trasparenza, si fa strada anche il suo lato problematico, se non addirittura paradossale. Se ne fa voce S. Freud che, in Sulla verità e la bugia in un senso non morale, ritiene impossibile la trasparenza sul piano personale. A impedirla, secondo lo psicoanalista austriaco, è la funzione esercitata dall’inconscio.
Più radicale è Byung-Chul Han. Il filosofo di origine sud-coreana, in La società della trasparenza, ritiene che, soprattutto nelle relazioni, assumere la trasparenza come principio assoluto finisce per mortificare, se non abolire del tutto, alcuni valori portanti dal punto di vista antropologico: il pudore, il bisogno di segretezza e la vergogna, virtù sociali che contribuiscono a tenere in vita le relazioni, senza farle diventare inautentiche. I protagonisti della relazione interpersonale non possono esporsi a un obbligo di trasparenza totale. Essi sono essenzialmente inconoscibili e talvolta un mistero a se stessi, parte di un mondo solo in parte conosciuto e conoscibile.
Sul piano socio-politico, la trasparenza non coincide con l’iper-informazione né con l’iper-comunicazione. Queste sono più vicine alla pornografia che alla verità. La trasparenza che introduce alla verità, pur servendosi di procedure, è garantita solo da sana cultura e da onesto sentire.