Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Proprio perché chiamati a fare continuamente i conti con un mondo e a vivere in un mondo tutt’altro che bello, ha senso volgere l’attenzione alla parola bellezza. Soprattutto se essa può risvegliare il desiderio di cercare il bello e di accoglierlo, di spendersi per il bello e di goderne in tutte le sue forme. Bisogna convenirne, un mondo attraversato da barbarie e segnato dalla sopraffazione consumata sulle persone e sul creato non facilita la contemplazione del bello né l’accoglienza della bellezza come dono.
«Non basta [però] deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo […], bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio» (C. M. Martini). Ma perché questo possa realizzarsi, piuttosto che la domanda angosciata rivolta al principe Myškin dal giovanissimo Ippolit («È vero, principe, che voi avete detto che la bellezza salverà il mondo?») ne L’idiota di Dostoevskij, mi sembra più realistico ricordare la considerazione che si incontra ne I fratelli Karamazov, dello stesso scrittore russo: «Cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini».
È ambigua la bellezza. Come la ricchezza, il potere e la conoscenza. Scioglie la loro ambiguità soltanto l’uso che se ne fa concretamente e il recupero rigoroso del senso insito nelle parole. Quante emozioni è capace di risvegliare la bellezza di un corpo armonico, di una parola sensata e ben detta, di un paesaggio disegnato con gusto, di una musica ben eseguita, di un potere esercitato con equilibrio! Quanti equivoci, invece, possono accompagnarsi a una bellezza che seduce soltanto; e quanta sofferenza essa può provocare, soprattutto in persone fragili e suscettibili!
Japheh e tov (splendido, ben riuscito, piacevole) sono i termini ebraici che designano la bellezza umana. Kalòs e agathòs (bello e buono) sono invece i termini greci che si riferiscono alla stessa realtà. In entrambi i casi, non vi è netta distinzione tra dimensione estetica e aspetto etico della bellezza, con una sfumatura di “giusto” nel tov ebraico. I problemi sorgono quando il “cuore degli uomini”, come lo chiama F. Dostoevskij, riduce la bellezza ad esteriorità in superficie, cancellando il legame tra estetica ed etica. Quando ciò avviene, la bellezza smette di essere dono per diventare mercato, nel senso negativo della parola. E la bellezza mercificata diventa paradossalmente una finzione, se non proprio una negazione della persona. Ci si lascia prendere, in questo caso, dalla bellezza e si sviluppa una voglia di possesso nei suoi confronti. Da qui passa la differenza tra la bellezza come dono e la bellezza mercificata.
La bellezza può essere percepita come dono solo dal “cuore degli uomini” nel quale arrivano e dal quale partono semi di gratuità e sguardi di sorpresa e di meraviglia, capaci di alimentare relazioni intense e significative. La bellezza che seduce invece isterilisce e tradisce.