Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Dei due termini (τύχη e παράδοξον πρᾶγμα) con i quali il greco antico rende la parola avventura, il secondo ne esprime in maniera davvero compiuta il significato. Παράδοξον πρᾶγμα è infatti qualsiasi realtà o avvenimento che si sviluppa in modo imprevisto e sorprendente. Ma παράδοξον πρᾶγμα è anche l’avventura, intesa come tratto distintivo dell’esistenza. Un’avventura che poco ha a che fare con imprese fisiche eccezionali, peripezie, viaggi esotici o con quanto viene promosso da sedicenti “scuole di sopravvivenza”.
L’avventura è invece un modo particolare di abitare il proprio tempo. Senza temerarietà. È lo stile di vita di chi non ama dare tutto per scontato. È la risposta dell’uomo alla curiositas che lo caratterizza, alla sua voglia e al suo desiderio di conoscere e di misurarsi con sfide concrete e sempre nuove.
L’avventura, così intesa, è stata posta al centro della loro attenzione da filosofi (J. Dewey, G. Simmel, V. Jankélévitch, R. Bodei) e artisti (B. Dylan, F. De André). Per gli uni e per gli altri, l’avventura è il frutto maturo di un cortocircuito emozionale che impegna cuore, mente ed energie fisiche e spirituali. Com’è accaduto a Ulisse, l’avventuriero per antonomasia. Il suo viaggio, metafora della vita di ogni essere umano, è mosso dalla curiosità e sostenuto dalla nostalgia del ritorno. Nello stesso tempo, in quell’esperienza il protagonista omerico mette a frutto il suo ingegno versatile, frutto di astuzia mista a prudenza.
Penso sia tutto ciò a far parlare di “equivoca bellezza dell’avventura” (G. Simmel) e a far assumere all’avventura i connotati di un’impresa animata dal desiderio di vedere il mondo, a cominciare dal proprio, da una prospettiva diversa o comunque non del tutto prevedibile e codificata. Ce ne dà conferma l’etimologia della parola avventura, che la vuole derivante dal latino adventura – forma neutra plurale del participio futuro del verbo advenire (giungere, accadere) – che vuol dire letteralmente “le cose che capiteranno”. L’avventura ci viene incontro (ad-venit). Per i cavalieri medievali, l’adventus era il momento in cui, entrando nella foresta, si realizzava per loro l’incontro con il divino, che illuminava la loro identità e il senso delle loro imprese.
In tutti i rimandi fin qui fatti, sempre emerge lo stretto legame tra l’avventura e la sete di conoscenza, che spinge ad allargare i propri orizzonti, a darsi l’opportunità di sperimentare nuove emozioni e a guardarsi dentro, in profondità. È, quest’ultima, la prima, più faticosa ed affascinante delle avventure, che diventa così sinonimo di passione per una vita che, come scrive Chesterton, «è la più bella delle avventure. Ma solo l’avventuriero lo scopre». Lo scopre chi accetta di ingaggiare ogni giorno una sfida con tutto ciò che pretende di presentarsi come definitivo e determinato, una volta per sempre. Per questo il filosofo italiano R. Bodei dice che l’avventura «è una gemma incastonata nella vita quotidiana», che implica la particolare condizione interiore della ekstasis, un sussulto che spinge a vivere lontano dal grigiore della routine