Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
La parola aiuto deriva dal latino adiutu, participio passato di adiutare; a sua volta, modalità intensiva del verbo adiuvare, composto da ad e iuvare (giovare a qualcuno o per qualcosa). È una forma di vicinanza fisica e/o spirituale, che può esprimersi in modi diversi: dall’ascolto alla formazione, dall’insegnamento alla prestazione di un servizio pratico, a supporto di qualcuno che vive una particolare situazione di fragilità. Se è vero che siamo fatti per vivere in relazione con gli altri, non è scontato che questo si traduca subito e per tutti in disponibilità ad aiutare chiunque. Non è affatto scomparsa l’idea liberista che quanti soffrono o sono assai vulnerabili siano un peso per la società e che aiutarli è solo un modo, per la società, per non danneggiare se stessa.
I cambiamenti intervenuti nel nostro mondo hanno contribuito ad allargare l’ambito di esercizio di quella forma di vicinanza che è l’aiuto. Al bisogno sempre crescente di aiuto materiale, nel nostro mondo si va imponendo in maniera forte e generalizzata la richiesta di aiuto a supporto del benessere relazionale. Una richiesta difficile da intercettare in un contesto culturale segnato sempre più dal narcisismo, dall’autosufficienza e dalla paura della dipendenza. La stessa sacrosanta ricerca di autonomia nella realizzazione di sé riveste talvolta maniere eccessive, che portano al rifiuto dell’aiuto, anche in condizioni di oggettivo bisogno.
Sono diverse le cause che stanno alla base del rifiuto o comunque della difficoltà a chiedere aiuto. A cominciare – unitamente a un malinteso senso di riservatezza e alla pretesa che sia l’altro ad accorgersi del mio bisogno – dall’errata convinzione che crescere significa non avere bisogno degli altri e che, di conseguenza, chiedere aiuto è ammettere un ritardo nella propria maturazione. Spesso, a scoraggiare la richiesta di aiuto, ci si mettono esperienze negative dovute all’incontro con persone inadatte a stabilire relazioni di aiuto. Inadatti a dare qualsiasi forma di aiuto sono coloro i quali vivono nella convinzione – talvolta, una vera e propria ossessione – di essere “nati per aiutare” e di non aver bisogno, mai, di essere aiutati. Presentandosi così, costoro stabiliscono una deleteria asimmetria, che inibisce e crea dipendenza. Il contrario di quanto raccomanda W. Goethe: «Trattate le persone come se fossero ciò che dovrebbero essere, e aiutatele a diventare ciò che sono capaci di essere».
Tenere in conto la raccomandazione di uno dei più illustri letterati tedeschi richiede innanzitutto capacità di ascolto del mondo che l’altro pone dinanzi a me, senza giudicarlo. Un mondo pieno di sfumature, che richiede discrezione, unita alla convinzione che dare aiuto vero non è creare una zona di comfort per l’altro facilitandogli il cammino, bensì offrirgli strumenti per crescere e maturare. Salvo a trovarsi – com’è capitato e capita ancora in Africa (D. Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, 2010) – di fronte ad aiuti, che non raggiungono nessuno di questi due scopi.