Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Trasfigurazione – L’ambito di riferimento della parola trasfigurazione non può essere solo quello dell’esperienza religiosa né solo quello dell’arte. È vero che la trasfigurazione viene associata alla scena evangelica sul monte Tabor: «Mentre pregava, il volto di Gesù cambiò d’aspetto e la sua veste divenne di un candore sfolgorante» (Luca 9,29). È vero che questo luminoso attimo di bellezza ispira le icone della Trasfigurazione nel periodo precedente l’arte bizantina (Sant’Apollinare in Classe), che arriva in Occidente quando i Normanni adottano la tradizione monastica cluniacense (Cappella Palatina di Palermo), ripresa, poi, in alcuni dipinti rinascimentali (B. Angelico, G. Bellini, L. Lotto, Raffaello). Ma è anche vero che sia il senso della trasfigurazione consegnatoci dal racconto evangelico, sia la derivazione etimologica della parola ce ne fanno scoprire una forte carica vitale.
Nella parola latina trans-figuratio, il prefisso trans indica un passaggio, il movimento di un “andare oltre” la figura o l’aspetto, coinvolgendo il soggetto e la sua storia. Così la trasfigurazione può portarci ad andare oltre una figura fissa, oltre le apparenze, spesso ingannevoli. “Andare oltre”, come fa ogni artista che abbia a che fare con le forme; o come fa ogni poeta e scrittore che fin dalle aule scolastiche ci colpiva con il suo linguaggio figurato, abituandoci a cogliere le sfumature delle emozioni: ad “andare oltre”, appunto, dischiudendoci orizzonti imprevisti.
Può “andare oltre” solo chi si fida e si lascia portare dove forse da solo non immaginerebbe. La trasfigurazione sorprende come luce che illumina qualche situazione diventata, per lo meno, aggrovigliata. All’improvviso ci si rende conto che esiste un’alternativa; s’intravedono spiragli dove c’è notte, dolore, tragedie. La realtà resta la stessa, ma è posta sotto una luce diversa, che dischiude un futuro. Nel presente, tuttavia, per noi il passaggio di luce è una soglia sfuggente tra visibile e invisibile, dove transita una figura in movimento, non una forma cristallizzata (P. Florenskij).
La discontinuità costituita dall’esperienza trasfigurante è inafferrabile. Per questo, non valgono i sinonimi usati per spiegarla. Se fosse trasformazione, sarebbe assai arduo riconoscere la stessa persona nel volto “diverso”, così da poter dire: «È ancora lui/lei». Se poi si trattasse di metamorfosi, dove il mutamento d’aspetto è totale, la cosa si rivelerebbe inquietante, al punto da esclamare: «Non è più lui/lei»: le metamorfosi rendono irriconoscibili e portano a fare un salto nel buio. Alle storie personali e comunitarie, per quanto pesanti, l’esperienza della trasfigurazione appartiene, più della trasformazione o della metamorfosi. Soprattutto quando una storia sia segnata dalla paura di soffrire nelle prove e tribolazioni.
La scena di Gesù sul Tabor indica a credenti e non credenti che la luce della trasfigurazione può attraversare le ferite (D.M. Turoldo). Ma a patto di aver fiducia che proprio accogliere quella sofferenza è il sigillo della nostra libertà (G. Dossetti).