Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Vulnerabilità – Dal latino vulnerabilis, derivato di vulnerare (ferire), la vulnerabilità rimanda alla fragilità, debolezza ed esposizione alla caducità della specie vivente. Nella specie umana è vulnerabile chi può essere ferito, chi è facile da attaccare o criticare ed è, quindi, fragile. Di una fragilità che Paulo Coelho invita a frequentare e a farsi appartenere: «Frequenta quelli che non temono di apparire vulnerabili. Perché hanno fiducia in se stessi e sanno che, prima o poi, tutti incespicano in qualche ostacolo; per loro, non si tratta di un segno di debolezza, ma di umanità».
Vulnerabile perché può presentare lacune o punti deboli può essere anche una teoria, un modello teorico di riferimento o una ideologia. Vulnerabile può essere anche una postazione militare esposta al nemico oppure un lavoro senza protezioni.
Il mitico Achille sarebbe stato immerso da bambino, dalla madre Teti, nelle acque del fiume per divenire invulnerabile. Per immergere Achille la madre dovette tenerlo per il tallone, che rimase così l’unica sua parte vulnerabile. Secondo la versione del mito riportata nell’Eneide di Virgilio, durante la guerra di Troia, Paride, venuto a conoscenza del punto debole dell’eroe lo uccise colpendolo con una freccia al tallone.
È fin troppo facile constatare che ognuno di noi ha il suo “tallone di Achille”. Esserne consapevoli può restituire uno sguardo realistico sulla realtà e suggerire relazioni vissute al riparo da inconcludente e dannosa arroganza. Ne è consapevole lo scrittore israeliano David Grossman quando scrive: «È una legge non scritta: chi vuole starmi vicino deve assumersi la responsabilità della mia anima. Perché qualunque idiota può capire come sia facile uccidermi. Uno sguardo ben mirato basterebbe. Sono convinto che da qualche parte, dentro me, c’è un punto vulnerabile che chiunque, anche uno sconosciuto, può vedere e colpire. Eliminarmi con una parola».
Un’equilibrata consapevolezza della propria vulnerabilità permette di essere se stessi, di coltivare emozioni positive rispetto a ciò che ci circonda. Impedisce di mettersi su piedistalli più o meno posticci dai quali emettere giudizi generici e senza appello. D’altro canto, rifiutare la propria vulnerabilità vuol dire perdere in umanità, se è vera la constatazione di Leo Buscaglia che afferma: «Io sono vulnerabile. Commetto errori. Sono imperfetto.
Ho paura. In altre parole, sono un essere umano. Ed è la cosa più preziosa. E tutto ciò che voglio essere». Chi accetta la propria vulnerabilità dà segno di intelligenza; quella che porta a impastarsi con il dolore, a nutrire speranza e a incarnarsi. Chi è Gesù di Nazaret se non il Dio vulnerabile, amante della vita che sceglie di esporsi alle ferite, al dolore e al tradimento per indicare strade nuove e offrire la certezza di una vita riuscita?