Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Banale – Dal francese ban – è il proclama emanato del signore feudale – si passa a banal con riferimento a qualcosa che si estende a tutto il villaggio, divenendo proprietà comune. Nell’antichità feudale, infatti, un luogo, un edificio, uno strumento era ritenuto “banale” se il suo uso era permesso all’comunità. Così, definire banale un acquedotto, un mulino o una strada voleva dire affermarne la pubblica fruibilità.
Si spiega così la corrispondenza che si è stabilita tra banale e (di uso) comune. Solo più tardi si è ritenuto banale tutto ciò che manca di originalità e, quindi, col significato di ovvio, prevedibile e, per certi versi, inutile.
Insomma, dal significato oggettivo e neutro che definiva banale tutto ciò che era comune, si è passato, con il tempo, ad attribuire al termine banale un senso dispregiativo per indicare, come si diceva, una realtà priva di eccezionalità e già abbondantemente nota. In questo senso, un discorso senza alcuna novità è banale, un romanzo che non evoca suggestioni nuove è banale, un’opera d’arte che non suscita emozioni forti è banale.
Forse vale la pena non dimenticare l’origine etimologica della parola “banale” evocata in apertura. Soprattutto perché la banalità non manca nelle nostre giornate, nei nostri discorsi e nella nostra vita. Il più delle volte essa è fatta di sentimenti, esperienze e incontri che non provocano emozioni forti e, anzi, possono rendere particolarmente faticosa la vita. Eppure, non necessariamente sentimenti diffusi ed esperienze comuni sono privi di significato. Come, non sono mai banali – solo perché sempre attesi e prevedibili – certi tramonti, certi panorami, certi profumi, certe relazioni. «La banalità è una caratteristica del linguaggio, non della realtà – avverte M. Parrini. – Chi tace non è mai banale, chi parla lo è quasi sempre». C’è un solo modo per sfuggire alla banalità e trasformare in speciale, unico e pieno di fascino ciò che è comune, ripetitivo, banale e talvolta sofferto. È un miracolo a portata di cuore e di volontà; ma soprattutto è il frutto più maturo della lealtà con la quale abitiamo le parole che pronunziamo e gli sguardi che rivolgiamo a persone e cose che incrociamo ogni giorno. Siamo sicuri che si vive bene solo quando la vita è fatta di esperienze estreme, di incontri imprevedibili, di vacanze sbalorditive, di spettacoli mozzafiato? Oppure, una vita degna di questo nome può essere fatta anche di una prevedibilità che non è frutto della mancanza di iniziativa ed è fatta di accoglienza per tutto ciò che, pur ripetendosi, domanda passione sempre nuova e partecipazione piena?
Di ciò che è “banale” – nel senso di “comune” – sono fatte le nostre giornate e i nostri incontri quotidiani. È una banalità che dà la sicurezza di appartenere a una comunità, quella umana, capace di restituire la quiete e la fiducia necessarie per esplorare strade inedite perché «l’apparizione della banalità è spesso utile nella vita, perché serve a rallentare delle corde troppo tese e fa ritornare in sé chi si era abbandonato a sentimenti troppo fiduciosi» (I. Turgenev).