Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Gusto – La ricchezza di significati che si accompagna all’etimo (GUS-TUS) della parola “gusto” spinge subito ad andare oltre, senza però ignorarlo, il riferimento principale a uno dei cinque sensi di cui è dotato l’essere umano: il gusto come senso che permette di percepire e distinguere i sapori. La collocazione dei recettori del gusto-senso nelle papille gustative della lingua lega il termine “gusto” innanzitutto al cibo o comunque a quanto viene a contatto con i recettori stessi: lingua, appunto, e bocca. Entrambi organi e luoghi fisici che hanno a che fare anche con la parola. Veniamo così introdotti al significato metaforico di “gusto” e a cogliere, di conseguenza, lo stretto legame tra cibo e parola/discorso. Un legame non sempre facile da giustificare ma presente in maniera evidente in espressioni, quali: avere “sete” di sapere e “fame” di conoscenza; “digerire” a fatica risposte che non ci convincono; “divorare” un buon libro; “bersi” una storia che ci viene raccontata; fare battute “acide”; sussurrare parole “dolci”; raccontare storie “piccanti”; “assimilare” certi concetti, “masticare” un po’di… lingua inglese; “mangiarsi” le parole; “bersi il cervello”. Una corrispondenza esiste anche nelle modalità riguardanti le modalità del “consumo” del cibo e di un discorso/parola: sia il cibo sia un discorso viene preparato, servito e consumato, per esempio, velocemente o lentamente, o in maniera disciplinata, come detta la regola monastica. A partire da queste considerazioni, in maniera sapientemente ironica Oscar Wilde affermava: “Ho dei gusti semplicissimi; mi accontento sempre del meglio”. Quasi a ricordarci che al gusto per cose e realtà che vanno oltre ci si educa, fino a poter affermare che il gusto o i gusti di una persona contribuiscono a disegnarne l’identità. Si parla infatti di persona di buono o di cattivo gusto nelle relazioni, per la musica, per l’arte, per la letteratura ecc. In questo caso, emerge il carattere piuttosto soggettivo del gusto, tanto da far dire a François de La Rochefoucauld che «La felicità sta nel gusto e non nelle cose; si è felici perché si ha ciò che ci piace, e non perché si ha ciò che gli altri trovano piacevole». Al netto dell’eccesso di soggettivismo che potrebbe insinuarsi, nell’affermazione di La Rochefoucauld vedo l’invito a vigilare per non far coincidere tout court il gusto con i propri desideri, con il soddisfacimento della curiosità o con l’eccessiva ricerca della sorpresa. Quand’è così, si rischia di preoccuparsi più delle cose che abbiamo o vorremmo avere che delle persone incontrate o da incontrare. Educarsi a “gustare la presenza” di una persona o di Dio è esercizio che porta frutto solo in chi sa andare oltre e assaporare anche il… retrogusto. Solo nel retrogusto – che esige tempo e dedizione ed è quello che rimane del gusto diluito e depurato – si manifesta la realtà di una persona e, perché no?… di Dio stesso.