C’è sempre qualcosa da fare di meno imbarazzante per le nostre coscienze. C’è sempre qualche notizia meno esigente da comunicare per i nostri media, sempre più abituati ad attivarsi a comando, semmai invitandoci a occupare le curve riservate agli ultras di quello stadio virtuale che è diventato il mondo della comunicazione. Anche questa volta il grido di una mamma che ha perso un figlio, si è spento inesorabilmente presto nelle cronache dei giornali e della tv. Mi riferisco al grido di dolore della mamma di Giò, il sedicenne di Lavagna, morto suicida. Eppure, partecipando a un affollato incontro di educatori, a Bologna, ho incontrato gente che non vuole assuefarsi. Nella certezza che è ancora possibile accompagnare le nuove generazioni nei loro processi di crescita e che non è giusto lasciare che le mamme e i papà dei tanti Giò restino soli con la percezione (talvolta la certezza) di aver fallito nella loro vita; e nella certezza che accettare oggi il compito educativo significa incontrare una fragilità che appare sempre più pervasiva, dilagante e angosciosa. Non serve essere pessimisti e pensare l’educazione solo in termini drammatici; ma non si può nemmeno essere ingenui e chiudere gli occhi sulle fatiche di crescere oggi. … (testo completo)
Il Sole 24 Ore – Editoriali e commenti – 25 febbraio 2017 – pag. 18