Abitare le parole / Tempo – Rubrica de “Il Sole 24ore” – Cultura
Il tempo che passa, il tempo che impegna con i suoi ritmi, il tempo che chiede di essere riempito, il tempo che, per questi e per altri motivi ancora, crea ansia. Un’ansia conosciuta già dai Greci che definivano il tempo soprattutto in riferimento al corpo: il tempo che passa segna e trasforma il corpo, come lo trasformano quelle che Braudel chiama le “strutture del quotidiano”. Buona parte del Novecento ha avuto una visione del tempo prevalentemente legata agli eventi, alla loro qualità e alla capacità che essi hanno avuto nel segnare la vita dell’uomo. Così c’è stato chi ha parlato del Novecento come del “Secolo breve”, a causa dell’accelerazione impressa da alcuni eventi agli assetti socio-politici; e c’è stato chi, come Max Weber, ha parlato del Novecento come “epoca del disincanto”, soprattutto in riferimento ai comportamenti dell’uomo e alla qualità di rapporti che questi ha stabilito con il suo ambiente vitale. Il Novecento, in riferimento al tempo e agli eventi che lo caratterizzano, è stato detto anche “Secolo spezzato”, ma non necessariamente con una connotazione negativa; come ha infatti osservato Leonardo Paggi (in I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Donzelli) un secolo spezzato può essere un tempo aperto a tante possibilità, su cui è impossibile scrivere la parola fine. Charles S. Maier infine, in un suo contributo dedicato anch’esso al Novecento, si è chiesto: Secolo corto o epoca lunga?
Sono solo alcune delle definizioni che parlano del tempo, non sempre e non solo in rapporto al tempo dell’io e a quello delle nostre singole vite. Tutti troviamo difficile, com’era già capitato a Sant’Agostino, definire il tempo in astratto. Molto più facile e sensato è definirlo in riferimento alla nostra storia personale. In riferimento alla mia vita, il tempo si presenta sempre come “possibilità” che interpella e che riesco a colorare o a imbrattare con la forza delle mie decisioni o delle mie indecisioni. Il tempo che passa può essere tempo di realizzazioni positive o spazio abitato dal non senso dei miei comportamenti. Non so se questo è sufficiente per poter affermare che siamo padroni del nostro tempo.
Sicuramente – e fatta salva la nostra natura di persone storicamente collocate – possiamo contribuire a rendere “significativo” il tempo; possiamo cioè contribuire a trasformare il kronos (il freddo susseguirsi degli eventi) in kairos, in tempo opportuno per la realizzazione di progetti capaci di incidere nella storia. Chi è capace di imprimere questa svolta al tempo rende di fatto senza senso il cinico imperativo di Cioran: «L’uomo non è più di moda e va disormeggiato con tutta la sua storia».
di Mons. Nunzio Galantino